E io, povero ingenuo, sprovveduto al pari di altri che mi sono venuti dietro di recente a sospettare, immaginare e quant’altro Vittorio Sgarbi tentato, quanto meno, dalla successione all’amico e mentore Silvio Berlusconi alla guida di Forza Italia, il più tardi possibile naturalmente. E ciò spiazzando tutti, fuori e dentro il partito fondato dal Cavaliere una trentina d’anni fa anche per consentire al già famoso critico d’arte di tornare in Parlamento pur senza la presenza del Partito Liberale che ve lo aveva portato per la prima volta.

Ma che Forza Italia e Forza Italia, come per il Psi ad un certo punto aveva pensato Bettino Craxi immaginando di affidarne la sorte a Giuliano Ferrara, dissuaso da Berlusconi dall’accettare per potergli fare da ministro per i rapporti col Parlamento nel suo primo e davvero imprevisto governo, nel 1994. Vittorio Sgarbi - appena eletto sindaco di Arpino, nel Frusinate, in continuità ideale con la memoria di Cicerone, il figlio più illustre di quella terra - sogna a suo modo il Quirinale per elezione diretta dei cittadini: gli unici, in effetti, a poterlo mandare lì, potendosi o dovendosi escludere che nel Palazzo, con l’elezione indiretta, potranno mai fidarsi di lui tanto da mandarlo sul colle più alto di Roma.

Sì, d’accordo, con questo metodo di elezione voluto dai Costituenti i signori, padroni e quant’altro della Politica, al maiuscolo che meritava un tempo, riuscirono a mandarvi, uno dopo l’altro fra il 1978 e il 1985, due campioni della imprevedibilità e popolarità insieme come Sandro Pertini e Francesco Cossiga. Che stavano ai loro partiti il Psi e la Dc - e alle rispettive correnti come due cerini a cinque centimetri da altrettante polveriere. Ma erano altri tempi. Di politici così coraggiosi, o pazzi, secondo le preferenze, si sono perdute le tracce.

«Mi sto allenando, il mio obiettivo è il Colle nel 2029», alla scadenza - bontà sua - del secondo mandato in corso di Sergio Mattarella, ha detto lo stesso Sgarbi, scherzando ma chissà sino a quanto, o gli ha fatto dire Libero nel titolo, fra virgolette, intervistandolo dopo l’ennesimo Comune conquistato anch’esso per gioco, o quasi, dall’attuale sottosegretario alla Cultura. «Vorrei ricordare - ha aggiunto o precisato, spiegando la sua preferenza per l’elezione diretta del capo dello Stato - che in tutti i Pesi civili c’è l’elezione diretta», appunto. «O c’è il Re o l’elezione diretta», come almeno negli Stati Uniti, in Francia, in Brasile. Dai, Giorgia, Meloni naturalmente, riprenditi la vecchia idea cara anche ai leghisti del presidente della Repubblica e non del presidente del Consiglio eletto direttamente. E l’eredità di Berlusconi a Forza Italia, sempre il più tardi possibile?, è tornato a chiedergli Libero?

E lui, sempre mescolando ironia e serietà, gioco e lavoro: «Magari l’eredità materiale, i denari, quelli sì, ma l’eredità spirituale preferisco la mia alla sua». Grandissimo Sgarbi, a parte gli altrettanto grandi insulti che dispensa al malcapitato di turno. «La mia condizione naturale - ha detto - è essere vittorioso. Il destino è segnato nei nomi», come quello appunto di Vittorio assegnatogli dai genitori ma forse assegnatosi da sé, precoce com’è stato in tutto, anche nella parola e nella firma, per quanto in fasce. Sia pure di tutt’altra provenienza e cultura, senza volere offendere né l’una né l’altra, a Sgarbi fa concorrenza per fantasia, gusto della sfida, prontezza di riflessi, donchisciottismo e simili il leggermente più anziano o meno giovane - cinque anni solo di differenza- Clemente Mastella, forte anche per questo di un curriculum politico più nutrito, essendo stato non solo sottosegretario ma, diversamente da Sgarbi, pure ministro, e più volte: al Lavoro, con Berlusconi a Palazzo Chigi, e alla Giustizia con Romano Prodi.

Provocato dal Corriere della Sera perché sconfitto - sempre in questo turno di elezioni amministrative - nella sua mitica Ceppaloni avendo inutilmente sostenuto il sindaco uscente Ettore De Blasio, l’inclemente Clemente ha risposto dal suo ufficio peraltro di sindaco di Benevento: «Io una cosa non riuscirò mai a capirla: se Boschi perde nella sua città nessuno dice niente; se a Brescia perde Meloni nessuno dice niente; se invece perde Mastella a Ceppaloni», peraltro non in prima persona, «tutti a chiedersi perché. Solo con me prevale l’elemento mediatico, eppure non risiedo manco più lì», anche se continua a possedervi la famosa villa con l’altrettanto famosa piscina a forma di cozza, descritta con dovizia, ironica e non, di particolari dai tanti giornalisti che vi accorrevano da invitati nei tempi d’oro dall’uomo di Ciriaco De Mita emancipatosi poi da solo.

Dopo aver tenuto a precisare che «in provincia di Benevento», dove appunto si trova la sua Ceppaloni, «abbiamo vinto in otto Comuni su tredici», Mastella se n’è uscito con questa davvero epica rappresentazione di se stesso e dei suoi avversari, vecchi e nuovi: «I cani giocavano sui corpi dei leoni immaginando di aver vinto. Ma i cani restano cani e i leoni sono sempre pronti a ruggire». Se non è Sgarbi pure lui, poco ci manca. E pensare che a me, con tutti gli scongiuri che immagino fra le mani di Mastella, l’ultima idea di leone in una foresta umana rimasta fino a ieri in testa era quella di Ahmad Massud, l’afgano famoso come “il leone del Panshir”, morto nel 2001 in un attentato propedeutico a quello di due giorni dopo alle lontanissime Torri Gemelle di New York.