Il ministro Piantedosi, uomo di mondo, ha confermato nell'aula del Senato la posizione del governo stando però ben attento a non aprire nessuno spiraglio a conflitti, veri o presunti, con Sergio Mattarella.

Ha usato le stesse parole del presidente, «quando si giunge al contatto fisico con ragazzi minorenni è sempre una sconfitta». Si è detto «turbato» dalle immagini dei pestaggi. Ha confermato le «verifiche in corso con rigore e trasparenza» sui fattacci. Oltre, naturalmente, a garantire che non c'è alcuna volontà di reprimere il dissenso. Anzi, in Italia si permettono manifestazioni “pro-Pal” molto più che altrove. Però ha anche sottolineato che le manifestazioni di Pisa e Firenze si svolgevano «in totale violazione della legge». Ha brandito «il diritto degli appartenenti alle forze di polizia di non subire processi sommari». Ha denunciato, forte anche dell'attacco di Torino a una volante del giorno precedente «un clima di crescente aggressività nei confronti delle forze dell'ordine». Un po' cerchiobottista, senza dubbio, ma nella sostanza molto attento ad apparire equilibrato.

Tanta attenzione, anzi anche la pur minima attenzione, faceva invece difetto nelle parole della premier della sera precedente: «Togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra è un gioco che può diventare molto pericoloso». Non ci possono essere dubbi su chi fosse l'oggetto dell'attacco, e infatti al Quirinale non ce ne sono: Sergio Mattarella. La sola istituzione, oltre al governo, che ha preso posizione sulle manganellate di Pisa e Firenze è stato il Colle. L'affondo, anche se nel day after molti si sono sforzati di camuffarlo fingendo di non aver capito, è frontale e clamoroso. Il presidente, che mercoledì sera ha telefonato sia al capo della Polizia che al ministro dell’Interno per comunicare la sua piena solidarietà agli agenti aggrediti a Torino, non risponderà certamente alla premier. Non significa che gli sia sfuggita la portata dell'attacco.

Tanta virulenza da parte della presidente del consiglio è inusuale. In oltre un anno di governo, la stella polare di Giorgia Meloni era stata evitare scontri frontali col capo dello Stato. Tensioni ce ne sono state, mai però esplicite, visibili e vistose, quasi non governate. La reazione muscolare della premier non è affatto ordinaria amministrazione, sia pur di carattere rissoso. Lo stesso discorso, però, si potrebbe applicare anche al capo dello Stato. Il presidente dalle elezioni vinte dalla destra in poi è sempre stato molto attento a evitare frizioni eccessive e si è sforzato di stemperare quelle latenti. In questo caso ha preso la strada opposta con parole che non potevano non suonare come critica e sconfessione della posizione di palazzo Chigi.

Le fonti del Quirinale, per la verità, hanno sempre affermato che l'atteggiamento spesso conciliante del presidente non andava scambiato per arrendevole e che Mattarella si sarebbe fatto sentire se e quando ce ne fosse stato bisogno. Ma un episodio del genere, per quanto increscioso e con aspetti gravi, era davvero di portata tale da richiedere l'intervento di un capo dello Stato sin qui molto cauto nei rapporti con un governo che certo non ama? Il giorno prima Mattarella si era espresso anche per bersagliare le rappresentazioni della premier minacciose o insultanti. Anche in questo caso, pur senza sottovalutare i rischi di ulteriore imbarbarimento della dialettica politica, l'uscita del presidente per un problema comunque molto minore, aveva qualcosa di inusuale.

Insomma, qualcosa sta cambiando nelle relazioni tra Colle e governo ma anche nella posizione mediatica del Quirinale. Affermare con certezza a cosa si debba questo cambiamento è impossibile. Si può solo procedere per ipotesi, ma in questo campo quella più credibile è senza dubbio legata alla riforma costituzionale. Mattarella, da sempre meticoloso nel rispetto del suo mandato e dei limiti del medesimo non solo nella sostanza ma anche nella forma, non dirà mai una parola contro il premierato. Ma non è un segreto che quella riforma gli piaccia pochissimo e che la consideri un vulnus profondo alla Costituzione del 1948, forse anche qualcosa di peggio. La riforma decurta i poteri del Quirinale e spiana il ruolo del Parlamento ma il fronte del No, per ragioni di opportunità propagandistica, ha già deciso di sbandierare soprattutto il primo argomento, la limitazione drastica del ruolo di garanzia del Quirinale. La campagna referendaria, se ci si arriverà come è comunque molto probabile, verterà all'80 per cento su questo punto.

Il diretto interessato non può e non vuole entrare in campo. Però può evidenziare nei fatti quanto importante sia quel ruolo di garanzia e come non si limiti affatto a intervenire solo nelle questioni macroscopcihe ma svolga un compito fondamentale nella quotidianità. È dunque possibile, e forse prevedibile, che nei prossimi mesi il presidente si faccia sentire spesso, anche a proposito di questioni gravi ma non gravissime come gli insulti alla premier o le manganellate di Pisa.

Una presenza molto più assidua del solito del capo dello Stato rappresenterebbe una minaccia concreta per la vittoria del governo nel referendum e in ogni caso è plausibile che, a torto o a ragione, Giorgia Meloni tema una manovra discreta ma inesorabile di questo genere. E che questo spieghi la decisione della premier, dopo oltre un anno di accortezza, di sfidare apertamente, su un terreno favorevole come la solidarietà con la polizia, il presidente della Repubblica.