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Schlein ce l'ha fatta. Con la complicità di una stampa amica che ha gonfiato il numero dei partecipanti alla manifestazione di sabato a piazza del Popolo, ma anche con uno sforzo di mobilitazione per una volta reale e che ha comunque portato in piazza una massa di militanti numerosa anche se distante della cifre ufficiali, è uscita a testa alta dalla sfida della piazza. Era la prima manifestazione convocata dal Pd da quando Elly è segretaria. È andata bene e il sospiro di sollievo è più che giustificato.
Le buone notizie però finiscono qui e le cattive arrivano con i sondaggi e, ancor più che con quelli, con le motivazioni che probabilmente spiegano il calo di consensi, rispetto ai primi mesi della segreteria Schlein che tutte le agenzie rilevano, anche se in misura significativamente diversa tra l'una e l'altra. Proprio la manifestazione di piazza del Popolo spiega probabilmente quel calo di consensi. La segretaria ha scelto di battere un sentiero di guerra: nessuna trattativa con la maggioranza, che del resto fa il possibile per chiudere ogni eventuale spiraglio. Può essere una strategia vincente dal momento che il problema del Pd non è rubare voti alla destra ma riconquistare fette di astensionismo e la stessa Schlein, nel comizio di sabato, ha mostrato di esserne pienamente consapevole. Ma allora bisogna avere la forza, la capacità, la determinazione e anche il coraggio di ingaggiare una vera battaglia politica. Una manifestazione in piazza del Popolo, non oceanica per definizione, e senza corteo è una prova di esistenza in vita, il solito “giorno dell'orgoglio ritrovato”, ma non è affatto un dare battaglia.
I contenuti del discorso nel giorno dell'orgoglio evidenziano l'altro limite della segreteria Schlein: il giocare di rimessa rispetto alle mosse del governo senza riuscire a imporre un punto di vista complessivo alternativo e antagonista. La segretaria ha enumerato uno per uno gli errori del governo, su ciascun punto ha assicurato che se al governo ci fosse lei imboccherebbe una strada opposta e probabilmente è vero. Se però si passa appunto a una visione strategica il discorso si rovescia e il vuoto di proposte, idee, immaginazione risalta. Il Pd si oppone alla riforma costituzionale Meloni e si avvia a ingaggiare uno scontro nel quale la posta in gioco lieviterà via via che ci si avvicina all'inevitabile referendum. La premier gioca la sua carta e non la manda a dire: «Volete decidere chi vi governa o volete che lo facciano i partiti?». È la base di una campagna elettorale forte che però avrà nelle ali il piombo di un testo che non è affatto così drastico come lo slogan stesso promette. L'occasione per l'opposizione tutta e per il Pd in particolare è concreta.
La leader del Pd però urla dal palco che la riforma va battuta in nome dell'antifascismo, dal momento che quella Carta è innervata proprio dall'antifascismo. Nessun riconoscimento dei pur macroscopici limiti reali della architettura istituzionale, nessuna ammissione di responsabilità che la sinistra condivide in larga parte, dunque nessuna prospettiva se non la situazione data che comunque «è antifascista». Lo è davvero però non funziona e non si può pensare che la proposta del Pd, unica e sola, cioè la sfiducia costruttiva, basti a riparare i guasti. Il problema del sistema italiano è, in buona parte, che formalmente resta fondato sulla centralità del Parlamento, cioè del legislativo, mentre di fatto quella postazione è stata occupata quasi ormai senza residui dal potere esecutivo, dal governo. Difendere la Costituzione antifascista dovrebbe dunque significare imboccare la strada opposta a quella indicata dalla destra, restituire al Parlamento quel ruolo centrale che è stato smantellato da tutti, centrosinistra incluso e a pari merito.
Stesso discorso vale per l'economia. Le accuse di Schlein sono fondate ma il rimedio non può essere la critica minuta delle scelte, a loro volta minute, del governo senza toccare il quadro complessivo: senza rimettere in discussione il ruolo attivo dello Stato come regolatore delle diseguaglianze. La cui assenza, imposta da un'ideologia che ha trovato nella sinistra appassionati sostenitori sempre forti e a volte maggioritari, è all'origine del disastro sociale che la leader del Pd denuncia ma solo nelle sue ultime e più specifiche conseguenze.
Si potrebbe dire che la destra propone sì una sua visione, salvo poi non riuscire a mantenerla per incapacità, per mancanza di possibilità reali o più probabilmente per l'intreccio soffocante di entrambi questi elementi. È vero, ma resta il fatto che quella visione c'è e basta questo a garantire una rendita di consenso comunque alta.
Le ragioni per cui il Pd e la sua leader evitano questi terreni è chiara. In un partito diviso l'armistizio deve reggere almeno sino alle europee. Ma il prezzo dell'armistizio, del non scontentare nessuno, è la paralisi e la conseguenza di quella paralisi afasica, una volta cancellati gli slogan, è quello che registrano i sondaggi.