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Per un'approssimazione che sconfina in asineria istituzionale, avrebbe forse detto il compianto Francesco Cossiga, si sta cercando da qualche parte di liquidare la questione del processo a Matteo Salvini, sollevata dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, come l'ennesima edizione dell'immunità parlamentare. Cui peraltro si sono richiamati i grillini per convincere, a quanto pare, il loro capo e vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio a sostenere che la costante contrarietà del Movimento delle 5 stelle a questo istituto non consenta eccezioni di sosta, neppure per un prezioso, per quanto temporaneo, alleato di governo come il ministro leghista dell'Interno, e vice presidente del Consiglio pure lui.
Ma l'immunità parlamentare, oltre ad essere stata abolita per promuovere e condurre processi contro deputati o senatori, protetti ora dalla richiesta di autorizzazione solo per l'arresto, la perquisizione e l'intercettazione, non c'entra nulla col problema di Salvini. E del processo cui il tribunale catanese dei ministri ha chiesto di sottoporlo, nonostante l’archiviazione proposta dalla locale Procura della Repubblica, per sequestro aggravato di persone e abuso d'ufficio in ordine alla vicenda, nella scorsa estate, del pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera Italiana. Che il ministro dell'Interno bloccò nel porto etneo col suo carico di migranti soccorsi in mare, fino a quando non ne ottenne l'assegnazione a più paesi, e ai vescovi italiani.
Mentre la vecchia immunità parlamentare, disciplinata dall'articolo 68 della Costituzione consentiva a deputati e senatori interessati di cautelarsi da un eventuale fumo persecutorio da parte della magistratura, l'immunità governativa o ministeriale, chiamiamola così, disciplinata dall'articolo 96 della Costituzione, e riguardante ministri anche non parlamentari, consente al Parlamento di giudicare preventivamente, rispetto alla magistratura, se vi è stato un interesse pubblico superiore a determinare una condotta governativa configurata come reato dai promotori dell'azione penale.
Lo dice in modo così chiaro la legge costituzionale di attuazione dell'articolo 96 - modificato nel 1989 per spostare la competenza dei reati ministeriali dalla Corte Costituzionale alla magistratura ordinaria, cui appartengono i cosiddetti tribunali dei ministri composti in ogni distretto giudiziario da tre giudici sorteggiati - che ha dovuto riconoscerlo pure Marco Travaglio in un editoriale sul Fatto Quotidiano. Che trasudava dalla voglia grillina di portare Salvini sul banco degli imputati, e magari anche altrove, per quanto il leader leghista come parlamentare avrebbe bisogno di un'apposita autorizzazione per finire nella cella lasciata perfidamente immaginare o desiderare da Emilio Giannelli, in una vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, anche ai due più accreditati candidati alla segreteria del Partito Democratico.
Dove personalmente mi auguro invece che si nutrano altri sentimenti, nonostante gli sforzi continui di Salvini di sottrarvisi con quella ostentata gestione muscolare della linea della fermezza in tema di immigrazione e di porti: una linea il cui solo nome, quello appunto della fermezza, mi procura gli stessi brividi - vi confesso - di quando fu praticata da un ben altro governo per gestire nel 1978 il sequestro di Aldo Moro. E scusatemi la divagazione.
La competenza affidata con legge costituzionale al Parlamento per valutare il superiore interesse pubblico a supporto di un atto ministeriale configurabile come reato, ma conforme ad una linea di governo peraltro suffragata dalla fiducia delle Camere mai venuta meno sull'argomento, dovrebbe in teoria impedire persino al ministro interessato di aggirarla con una rinuncia alle garanzie dell'articolo 96. Eppure proprio questa rinuncia è sempre più chiaramente auspicata dai grillini per evitare un passaggio parlamentare scomodissimo per varie ragioni: dal timore di una ulteriore e forse non recuperabile frattura nei rapporti fra i due partiti di governo alla paura di vedere formare nell'aula del Senato, dove i numeri gialloverdi sono scarsi, una maggioranza alternativa grazie all'appoggio già garantito a Salvini dalla destra di Giorgia Meloni e dai forzisti di Silvio Berlusconi. Che proprio in questi giorni è tornato alla ribalta, se mai se ne fosse davvero allontanato, candidandosi al Parlamento Europeo nel venticinquesimo anniversario della sua prima ' discesa in campo'.
A sostegno di una rinuncia di Salvini alle garanzie dell'articolo 96 della Costituzione è stato citato un precedente del compianto Altero Matteoli, l'ex colonnello toscano di Gianfranco Fini più volte ministro e rimasto fedele a Berlusconi sino alla fine. Ma il precedente è imparagonabile alla vicenda attuale di Salvini.
Matteoli fu accusato nel 2014 con altri cento imputati di corruzione per i lavori del Mose, a Venezia. Egli rinunciò in modo ininfluente all'autorizzazione del Senato dopo che già era stata raggiunta la maggioranza contro di lui nella competente giunta, e l'esito della votazione in aula era scontato. Processato, fu condannato a 4 anni in primo grado nel mese di settembre del 2017, tre mesi prima di morire in un incidente stradale a Capalbio.
Il caso Salvini, purtroppo per i grillini, è - ripeto - dannatamente diverso, con risvolti ed effetti politici e istituzionali a dir poco imbarazzanti per la maggioranza gialloverde già in grossi affanni su tanti versanti, interni e internazionali. Essi non sono forse estranei alla tentazione, anzi alla ' rassegnazione' appena attribuita al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda a ' cambiare passo' nell'imminente inizio del quinto dei sette anni del suo mandato, per diventare ' interventista'.
Non basterebbe più sul colle più alto di Roma la ' terzietà attiva' praticata sinora, secondo quanto Breda ha scritto sentendo con orecchio molto allenato ' coloro che stanno vicino' al capo dello Stato.