Le elezioni del 26 gennaio hanno registrato due sconfitte, ponendo in entrambi i casi i perdenti di fronte a una scelta troppo a lungo rinviata. Il dilemma del M5S è noto, conclamato, discusso ovunque. Quello di Matteo Salvini molto meno vistoso ma non meno decisivo e urgente: deve decidere se vuole continuare a essere, come di fatto è stato sinora, solo il capo della Lega o diventare il leader del centrodestra. Con tutti gli oneri che una leadership di coalizione comporta: nel caso specifico l'abbandono delle tentazioni totalitarie che dalle elezioni politiche del 2018 a quelle regionali del gennaio 2020 hanno accompagnato ogni passo del capo leghista.

Dopo il sorpasso a sorpresa su Fi nel 2018, con un'onda favorevole che sembrava alzarsi ogni giorno di più, Salvini si è illuso di poter trattare i partiti di centrodestra con i quali era formalmente coalizzato già in quelle condizioni, da comparse più che da comprimari: un po' massa di manovra da adoperare se e quando necessario, un po' corpi esanimi da vampirizzare, o meglio, nel caso di Fi, dissanguare definitivamente. Questa logica ha spinto Salvini verso l'alleanza di governo con i 5S, previo consenso né lieto né spontaneo di Berlusconi. La stessa bussola lo ha guidato nella crisi di agosto, scatenata senza pianificarla con gli alleati di centrodestra e gestita poi in solitudine, con conseguenze esiziali. Se a chiedere le elezioni, in agosto, fosse stata la coalizione di centrodestra, presentandosi unita sul Colle e forte di un successo complessivo alle Europee e di sondaggi trionfali, per Mattarella sarebbe stato molto meno facile, e forse impossibile, negare il voto. La decisione del leghista di presentarsi da solo alle consultazioni, costringendo gli altri due partiti a fare lo stesso, ha aperto di fatto le porte al governo Conte 2.

In Emilia- Romagna è andato in scena un copione identico. Salvini ha impostato dall'inizio alla fine la campagna elettorale sempre e solo come capo della Lega. Ha imposto una candidata debole, mentre in tutta evidenza avrebbe potuto trovare nelle file azzurre o al di fuori dei partiti nomi ben più rassicuranti per una parte dell'establishment di quella Regione: quella che può anche essere tentata dal cambiameno ma non sino a mettere in gioco i risultati sin qui ottenuti. Per mesi, poi, Salvini si è mosso sul filo dell'estremismo ogni giorno di più esasperato, col risultato di spaventare quella stessa area moderata senza il cui consenso non era possibile vincere. La replica forzista è stata affidata all'eloquenza delle urne, sia in Emilia che in Calabria. Nella regione meridionale quello stesso notabilato che nelle scorse europee si era spostato da Fi alla Lega ha preferito tornare indietro, ritenendo evidentemente il leghista non abbastanza affidabile e dimostrando così che nel sud Forza Italia non è affatto cadavere ed è anzi necessaria per vincere. In Emilia- Romagna in tutta evidenza una percentuale congrua dell'elettorato azzurro ha scelto Bonaccini senza neppure l'alibi del voto disgiunto, anche in questo caso rivelando che senza il supporto dei moderati sensibili al richiamo azzurro la Lega può anche essere fortissima ma non vincente.

Allo stesso tempo, con metodo e pazienza, puntando essenzialmente su un comportamento coerente, il partito di Giorgia Meloni, FdI, è passato da trascurabile cespuglio condannato a uniformarsi ai voleri dell'alleato più potente a forza di tutto rispetto e in crescita, con la quale Salvini deve ora trattare se non proprio su un piede di parità neppure sperando di far valere una schiacciante superiorità. Del resto, dopo aver trovato una collocazione centrale nel gruppo dei conservatori nell'europarlamento, la Meloni si accinge ora, con viaggio negli Usa, a costruire una sponda anche nella Washington di Donald Trump.

Svanita l'ultima occasione di chiudere la partita del governo Conte con la spallata andata a vuoto, Salvini deve ora abbandonare il terreno della mera propaganda, quello su cui si muove meglio, e iniziare a fare politica nel senso pieno del termine, sia lasciando spazio ai leghisti più attenti alle sfumature politiche, a partire da Giorgetti, sia decidendosi a rivestire i panni di un leader di coalizione, anche in questo caso accettando mediazioni e cessioni di potere su tutti i piani. Questo, del resto, è stato per vent'anni uno dei segreti di Silvio Berlusconi che, sia pure senza mai mettere in discussione la primazia del suo partito, si sforzava, in alcuni casi con quasi inaudita generosità politica, di accontentare quanto più possibile gli alleati. A patto naturalmente che non si mettesse in discussione la sua corona.

Salvini però non è Berlusconi. Tollera pochissimo le pastoie che inevitabilmente implicherebbe riconoscere ruolo e potere ai moderati di Fi, che in realtà non lo sopportano come lui non sopporta loro. Diffida di una Meloni che mira in tutta evidenza a pescare nel suo stesso bacino elettorale, e con successo crescente. Per natura, non è portato al calibrare e dosare i toni, come si impone a chi guida non un partito ma una coalizione. In un certo senso il suo alleato ideale, e di gran lunga il preferito, era proprio Luigi Di Maio. Ma quella porta la ha chiusa lui stesso, con scarsa preveggenza, nello scorso agosto. Così adesso entrambi gli ex soci del governo gialloverde si trovano al bivio: i 5S devono decidere se seguire Conte sulla strada dell'alleanza con il Pd, difendere una linea autonomista destinata probabilmente a finirli o dividersi, riaprendo così le porte, per l'ala destra, a una possibile alleanza con la Lega. Salvini deve decidere se tenere duro sulle posizioni cesariste che hanno già smesso di pagarlo in termini di consenso crescente o tentare la metamorfosi da istrionico tribuno a leader politico.