Forse al Consiglio federale della Lega convocato per oggi ci sarà davvero l'annunciata e molto attesa “resa dei conti” tra le due anime e i due leader della Lega, Salvini e Giorgetti. L'affondo del ministro dello Sviluppo è stato in effetti tagliente. Non tanto per la proposta di varare un «semipresidenzialismo de facto» con Draghi in un Quirinale a misura di Eliseo, quello Salvini potrebbe tutto sommato accettarlo senza troppi dolori e il problema riguarda piuttosto il centrosinistra che non vuole trovarsi nella scomoda situazione di dover eleggere in febbraio un Draghi col dubbio di star così riscrivendo di fatto la Carta. Ma sulla richiesta di completare il tragitto verso la normalità europeista magari approntando nel gruppo europarlamentare del Ppe le cose stanno diversamente. Lì la rotta vagheggiata dal campo diametralmente opposta, guarda a LePen e a Bolsonaro, non ad Angela Merkel.

Dopo mesi di distinguo sempre più pubblici e profondi, gli estremi per uno scontro frontale o almeno per un “chiarimento” di quelli molto ruvidi ci sarebbero tutti. Ma non è affatto detto che ci si arrivi ed è anzi quanto meno improbabile. Il Consiglio federale di oggi era stato deciso già prima che venissero rese note le deflagranti affermazioni consegnate da Giorgetti per la sua annuale strenna di fine anno. Il vertice salviniano ha deciso furbescamente di far credere che la convocazione d'urgenza sia dipesa dall'esigenza di reagire subito al siluro del ministro dello Sviluppo ma non è così.

Il Consiglio, inoltre, sarebbe la sede meno ostica per Giorgetti. Minoritario a dir poco nei gruppi parlamentari e forse anche tra gli elettori, il ministro può contare invece, in quella sede, sull'appoggio, più o meno esplicito, del potente establishment del Nord, a partire dai potentissimi presidenti di Regione che non la pensano in realtà in modo molto diverso. Salvini si limiterà a lanciare la proposta di una assemblea programmatica entro l'anno, con i ministri, gli amministratori, deputati ed eurodeputati. La sede adeguata per lo showdown potrebbe essere quella.

Ma soprattutto i due leader hanno bisogno l'uno dell'altro e lo sanno. Salvini, “Bud Spencer” come lo definisce Giorgetti, è ancora il tribuno che porta i voti ed è comunque l'unico argine alla marea di FdI, decisa ad accaparrarsi proprio i voti di un elettorato in bilico tra Lega e FdI ma ostile alle scelte troppo governiste del Carroccio. Salvini però ha altrettanto bisogno di Giorgetti, perché non può fare a meno del partito del Nord ma neppure, nonostante le sparate propagandistiche, dell'Europa.

La divisione tra il leader e il ministro, per ora, si limita a riprodurre quell'atteggiamento bifronte che Salvini non ha mai abbandonato negli ultimi mesi, assegnando però a ciascuna delle due anime un volto diverso, al punto da rendere lecito persino il sospetto di un gioco delle parti. Se anche così fosse, però, difficilmente il marchingegno frenerebbe l'emorragia di voti provocata almeno in parte proprio dalla posizione ambigua del Carroccio.

Giorgetti propone di uscire da quell'ambiguità con una risoluta scelta di campo a favore dell'europeismo. Ma l'uomo è troppo esperto e navigato per non sapere che una simile svolta verrebbe pagata subito a caro prezzo in termini di voti. Può scommettere sul fatto che quei voti rientrerebbero presto, considerando comunque in fase di riflusso rapido l'ondata populista che aveva segnato il decennio scorso. Ma quel recupero, anche se si realizzasse, richiederebbe tempo. Dunque forse la divaricazione tra Salvini e il suo numero due è anche più vasta di quanto appaia.

Salvini si muove ancora nell'ottica di un sistema politico egemonizzato dai partiti. Si preoccupa della competizione feroce con la gemella diversa Giorgia, calibra sui calcoli considerando questa fase una parentesi emergenziale dopo la quale i partiti riprenderanno il timone. Giorgetti scommette invece su una svolta imminente, chiaramente presidenzialista ma anche tecnocratica, nella quale a gestire il Paese saranno forse uomini di partito ma in veste di collaboratori del premier. Questo sarebbe il segno del «semipresidenzialismo di fatto» veicolato dall'elezione di Draghi a nuovo capo dello Stato che il ministro dello Sviluppo si augura.

Nessuno dei due leghisti può sapere oggi chi avrà ragione. Il sistema istituzionale italiano, già molto provato prima del Covid, è aperto a esiti diversi e opposti e saranno probabilmente solo i fatti a dire, nell'arco di un paio d'anni, quale visione strategica è oggi più preveggente, se il populismo partitico di Salvini o la tecnocrazia presidenzialista di Giorgetti.