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ILARIA SALIS POLITICO
Sono giorni complicati per Ilaria Salis, l’eurodeputata che rischia di tornare nelle carceri ungheresi, quelle che la Corte europea ha già bollato come indegne di un paese civile. L’Ungheria di Orbán ha infatti chiesto all’Europarlamento di toglierle l’immunità, e la Commissione Affari giuridici discuterà la faccenda il 23 settembre. Poi, se passerà la linea ungherese, la plenaria voterà il 7 ottobre: due date che, parole della diretta interessata, «decideranno della mia vita e della democrazia».
Salis si aggrappa dunque all’immunità, e fa bene. Perché senza quella protezione rischierebbe non solo di essere estradata, ma anche di ripiombare nelle celle sovraffollate di Budapest, dove la violazione dei diritti umani è stata accertata più volte. Lì gli imputati vengono portati in aula in catene, come nei romanzi di Dickens.
Ma tra le pieghe di questa vicenda assai delicata e, per certi versi, drammatica, si cela una venatura ironica: la sinistra che oggi, giustamente, difende Salis è la stessa che per decenni ha predicato contro l’immunità parlamentare, trattandola come un privilegio intollerabile, un residuo di casta. Quella stessa sinistra, ossequiosa davanti alle procure e che sognava un mondo dove i parlamentari fossero indifesi di fronte al potere giudiziario, ora scopre che l’immunità non è un vizio ma un argine.
Il caso Salis, con la sua crudezza, restituisce una lezione elementare: l’immunità non è una scappatoia per colpevoli in doppiopetto, è un istituto sacrosanto che protegge il mandato popolare dall’arbitrio delle procure e – come oggi – dalle vendette di democrazie che, sempre di più, cedono a derive autoritarie. In Italia, invece, l’immunità, da Tangetopoli in poi, è diventata una bestemmia, un rifugio di casta: basti ricordare le ovazioni quando fu smantellata a colpi di riforma, con l’applauso entusiasta di chi aveva deciso di consegnare il Parlamento alle Procure.
E forse proprio questa contraddizione può insegnare alla sinistra una cosa semplice: che i diritti non sono un optional, e che il garantismo non è un favore a pochi, ma una condizione per tutti. La vicenda Salis non è soltanto il destino di una donna che rischia 24 anni di carcere per aver malmenato dei neonazisti: è lo specchio deformato di una sinistra che, dopo aver perso la bussola, potrebbe ritrovare la rotta tornando a credere nella forza del diritto e non nella forza dei pubblici ministeri.