Per capire il senso della solenne Dichiarazione che i 27 Paesi dell’Unione dovrebbero firmare domani ci vorrà la lente d’ingrandimento, e anche di quelle potenti. A forza di limare, cancellare, ammorbidire, edulcorare, smussare, annacquare e aggirare, la carta grazie alla quale l’Unione malata dovrebbe ritrovare il vigore dei bei giorni somiglia piuttosto a uno di quei testi bizantini nei quali eccelleva la diplomazia democristiana.

Il bello è che anche dopo questo encomiabile sforzo per dire il meno possibile non è affatto certo che tutti i 27 apporranno l’agognata firma.

Tsipras punta i piedi e ieri pomeriggio ancora resisteva ai suadenti sforzi di Paolo Gentiloni per convincerlo a firmare. I passaggi sull’ ' Europa sociale' del documento sono scoloriti sin quasi a scomparire, su brutale istanza dei Paesi del Nord. Ma per la Grecia il problema è più terragno: è la richiesta di un sostegno strenuo nella trattativa con i creditori per la revisione del terzo programma di aiuti. L’Fmi pone condizioni capestro, come se non bastassero quelle con cui la Grecia continua a essere sventrata ormai da anni: ghigliottina sulle pensioni, inter- vento con gli stivali chiodati sul mercato del lavoro, in particolare dando l’estrema unzione alla contrattazione collettiva.

«Chiedo il vostro sostegno per proteggere il diritto della Grecia di tornare agli standard del modello sociale europeo», ha scritto Tsipras al presidente della Commissione europea Juncker e al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Il documento però non dovrebbe andare oltre una scialba affermazione sulla necessità di «salvaguardare il ruolo chiave delle parti sociali». Non è certo quel che Tsipras chiede ma l’opinione generale è che alla fine la Grecia si accontenterà. Probabilmente è vero. Tsipras ha già pronto un discorso durissimo. Al termine del quale sarà costretto a piegare la testa.

Sino a ieri anche la Polonia negava la firma, e il problema della premier polacca Beata Szydlo è il cuore stesso della svolta di Roma: l’Europa a più velocità. E’ il fronte sul quale la Dichiarazione è stata più rimaneggiata, ogni volta abbassando il tiro. Alla fine non si dovrebbe andare oltre una vaga linea di indirizzo: «Agiremo assieme, a ritmi a intensità diversi ove necessario, ma muovendoci nella stessa direzione e tenendo la porta aperta a quelli che vogliono raggiungerci più tardi. La nostra Unione è indivisa e indivisibile». Basterà alla Polonia, che vede nelle ' due velocità' la minaccia del declassamento? Tutti scommettono di sì ma in realtà neppure questo è detto. In parte dipende dall’irritazione per la conferma di Donald Tusk, anche lui polacco ma ostile alla politica del governo della Polonia, alla presidenza del Consiglio europeo. La Polonia è stato l’unico Paese dell’Unione a votare contro, poche settimane fa, e considera la scelta di confermare comunque Tusk un affronto diretto. Ma soprattutto i dubbi polacchi diopendono dal fatto che la vaghezza del documento è un’arma a doppio taglio. Proprio perché dice pochissimo si espone in futuro a una gamma di possibili interpretazioni e implementazioni vastissima. Ecco perché La Szydlo chiede che la Dichiarazione includa esplicitamente ' le questioni che sono le nostre priorità' e minaccia in caso contrario di non sottoscrivere.

Mettendo le mani avanti per tempo, già ieri gli addetti ai lavori facevano sapere informalmente che se pure dovessero mancare un paio di firme non sarebbe una tragedia, ricordando che in fondo 10 anni fa a Berlino la Dichiarazione fu firmata solo dalle istituzioni europee e non dai singoli Stati. Formalmente è vero. Di fatto le cose stanno diversamente, perché dieci anni dopo Berlino l’Unione versa in uno stato quasi comatoso. Oggi verrà messo sotto i riflettori soprattutto il fronte che riguarda i paesi dell’Est e la loro resistenza all’integrazione, cioè all’accettazione delle politiche dettate da Bruxelles, tenendo sotto traccia l’altra grande divisione, quella sul rigorismo e sulla necessità di modificare i trattati.

E’ il fronte Nord- Sud che coinvolge direttamente l’Italia e che è forse il più nevralgico, anche se si cercherà di parlarne il meno possibile. Per il governo di Roma, per esempio, il momento cruciale non sarà oggi: è arrivato già ieri con l’incontro tra il vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis, un falco, e il ministro dell’Economia Padoan. Colloquio fissato perché l’Europa vuole accertarsi che il governo italiano intenda varare sul serio la manovra correttiva imposta entro il 30 aprile, nonostante le fortissime resistenze del Pd e in particolare di Renzi, ma anche per avvertire e ricordare che misure ben più incisive e dolorose dovranno essere prese dall’Italia nei prossimi mesi. Meglio se già a partire dal Def, che sarà presentato il 10 aprile.

Per un’Europa così ridotta, la via d’uscita di un documento volutamente ambiguo e quasi anonimo è già uno smacco. L’eventuale assenza delle firme di due Paesi che mettono plasticamente in evidenza le divisioni, la Polonia sul fronte Ovest- Est, la Grecia su quello Nord- Sud, sarebbe pioggia sul bagnato. In queste condizioni la festa di Roma, attesa come una specie di evento salvifico, rischia di fare notizia soprattutto per le misure di sicurezza da stato d’assedio. Erano già esorbitanti prima dell’attentato di Londra. Poi hanno raggiunto livelli che rasentano l’isteria.

Settemila agenti sulle strade ma anche sui tetti di Roma, un migliaio di agenti in borghese, due zone rosse presidiate militarmente, 15 km di transenne e grate antisfondamento disposte un po’ ovunque con 40 varchi strettamente sorvegliati, due giorni di no- fly zone nei cieli della capitale, servizi segreti attaccati ai monitor per pattugliare il web. Con in più un ministro degli Interni che minaccia il pugno di ferro e la ' tolleranza zero' contro ' i violenti' che potrebbero ' infiltrarsi' nei sei cortei autorizzati che si svolgeranno domani.

Difficile, anche con le migliori intenzioni, evitare la sensazione di trovarsi di fronte non a una gaia festa di compleanno ma a una mesta cerimonia funebre.