Ventisette settembre 1962. Quella volta una telefonata con l’inganno, simile ma diversa da quella subita da Giorgia Meloni per mano di due comici russi, servì a salvare un uomo da una condanna a morte.

Quel giorno a Milano arrivò una telefonata al viceconsole di Spagna, Isu Elias, con un invito da parte del vicesindaco, il democristiano Lugi Meda, per il giorno dopo al ristorante “La Giarrettiera”, osso buco e risotto giallo, in Galleria. La telefonata era una finzione, ma reale fu il sequestro del funzionario spagnolo, il tutto orchestrato da un gruppo di giovani anarchici per un nobile motivo, salvare la vita di un altro anarchico spagnolo, che rischiava la pena capitale nel regime di Francisco Franco. Dal consolato, proprio come nelle settimane scorse da Palazzo Chigi, quel numero di telefono fasullo fu richiamato con una sorta di recall, rispose il finto vicesindaco, il quale si offrì di mandare il suo segretario con autista a prelevare il viceconsole per accompagnarlo al ristorante. E il sequestro si compì.

Due mesi prima, nella notte tra il 29 e il 30 giugno, erano esplose a Barcellona tre bombe. Dimostrative, tanto che non provocarono danni a persone né a cose. Ma la firma anarchica, bestia nera del regime franchista, portò il giorno dopo all’arresto di tre ragazzi, aderenti alla Federaciòn Ibérica de Juventude Libertaria, lo studente di chimica Jorge Conill Valls e gli operai Marcelino Jiménez Cubas e Antonio Mur Peiròn. Tre giorni dopo gli anarchici erano già condannati, il primo a 30 anni di carcere, gli altri due rispettivamente a 25 e 18 anni.

Una sentenza considerata però troppo morbida dal Capitano generale di Catalogna, che la rinviò al tribunale militare per un nuovo processo che terminasse possibilmente con la condanna a morte quanto meno di Conill. Fu a quel punto che si mobilitarono gli anarchici milanesi, che avevano conosciuto gli spagnoli durante un viaggio nel loro paese. Pensarono a un’azione dimostrativa che potesse conquistare i media di tutto il mondo, per denunciare il regime franchista e i suoi metodi. Il viceconsole Isu Elias fu sequestrato il 28 settembre 1962 con il trucco della finta telefonata e fu portato a Cugliate Fabiasco, paesino di 178 abitanti in provincia di Varese, a 50 chilometri da Milano e vicino al confine svizzero. Gli anarchici milanesi si chiamavano Amedeo Bertolo, Luigi “Kiko” Gerli, Gianfranco Pedron e Aimone Fornaciari.

Conoscevo bene i primi due, miei compagni di classe al liceo Berchet, nella terza C che aveva come professore di latino e greco il professor Arturo Brambilla, filologo di fama e amico di una vita di Dino Buzzati, e come insegnante di religione don Luigi Giussani non ancora fondatore di Comunione e Liberazione. Eravamo ventenni pieni di ideali (parola in grande uso negli anni sessanta) e fummo tutti al fianco di quel gesto considerato comunque “nobile” anche dalla sentenza che alla fine diede lievissime condanne a quei ragazzi. I quali furono affiancati nella loro azione da altri quattro, di poco più adulti, aderenti alla sinistra socialista rivoluzionaria: Alberto Tomiolo, Vittorio De Tassis, Giorgio Bertani e Giambattista Nivello-Paglianti. Forse troppi, perché l’azione rimanesse riservata, infatti così non fu.

Eravamo lontani anni luce da quel che verrà dagli anni settanta in avanti, né gli anarchici né i socialisti erano terroristi, né avevano mai avuto alcuna intenzione di sfiorare con un dito il loro “prigioniero”, il quale lo testimoniò con molta sincerità al processo. Il sequestro durò in tutto quattro giorni, mentre le voci cominciavano a circolare a Milano, che è poi, per certi ambienti, una città piuttosto piccola. A sorvegliare il prigioniero restava solo uno di loro, che in genere giocava a carte con il viceconsole. Persino sulla soglia di casa mia, si affacciarono in una di quelle sere le facce di Amedeo e Kiko, con lo sconcerto del mio fidanzato che come me frequentava più i comizi di Malagodi che i circoli anarchici. Insomma, erano pieni di ardore rivoluzionario, ma anche un po’ pasticcioni.

Ma il risultato fu raggiunto. I giornali parlarono del rapimento con grande evidenza, tutti pubblicarono il comunicato degli anarchici, che fu diffuso da Parigi: “Sequestriamo il viceconsole di Spagna a Milano, per cercare di impedire l’esecuzione capitale di tre giovani antifascisti condannati a Barcellona. Il dottor Elias non corre nessun pericolo. Garantiamo la sua liberazione non appena, grazie alla notizia del sequestro, si sarà fatto sapere al mondo il triste destino dei nostri tre compagni a Barcellona. Viva la Spagna libera!”.

Quei ragazzi, che avevano dato vita al primo sequestro politico dell’Italia repubblicana, portarono a casa il risultato. Gli anarchici spagnoli evitarono la pena capitale, vedendo confermata la prima condanna, comunque pesantissima, per delle azioni dimostrative. Negli anni seguenti e dopo la fine del regime franchista, fruirono però di diverse amnistie e furono scarcerati. Ma il rapimento di Isu Elias, che fu consegnato alla polizia anche con la collaborazione di alcuni giornalisti, divenne il detonatore di una sere di manifestazioni antifranchiste e di prese di posizione politiche e del modo religioso. Tanto che quando per un errore l’agenzia statunitense Associated Press pubblicò la falsa notizia della condanna a morte di Conill, si mosse finalmente il cardinale di Milano, quel monsignor Martini che poi diventerà Paolo VI. Era stato invano sollecitato fin dal primo momento. Ma poi qualcosa fece. L’ 8 ottobre scrisse di suo pugno questa lettera al generale Franco: “A nome degli studenti cattolici milanesi e mio personale, prego vostra eccellenza di usare clemenza nei confronti degli studenti lavoratori condannati affinché possano essere salvate vite umane e sia chiaro che l’ordine pubblico in un paese cattolico possa esser difeso diversamente che in paesi senza fede e ai quali non appartengano i costumi cristiani”.

Risolto il problema principale, quello spagnolo, si fecero i conti anche in Italia. Con un processo, dopo che ovviamente tutti i sequestratori erano stati arrestati, che fu clamoroso. E anche con un piccolo colpo di scena: Amedeo Bertolo, l’unico che era riuscito a scappare in Francia, si consegnò, come aveva promesso, nell’aula del palazzo di giustizia di Varese, in cui entrò beffando le ingenti forze di polizia che lo ricercavano invano. Si spacciò per giovane di studio del professore e grande avvocato Alberto Dall’Ora ( che sarà anni dopo anche il difensore di Enzo Tortora) e comparve direttamente nell’aula.

Vennero a testimoniare a favore degli anarchici tutti i nostri professori della terza C del liceo Berchet di Milano, il pubblico ministero chiese pene che si aggiravano al massimo sull’anno di reclusione, che furono ulteriormente ridotte dal tribunale presieduto da Eugenio Zumin. Otto mesi a De Tassis, il finto autista, sette mesi e venti giorni a Bertolo, Pedron e Tomiolo, sette a Gerli, sei a Bertani, cinque a Novelli-Pagliani, Fornaciari e Sartori. Tutti gli imputati ebbero la sospensione totale della condanna, la non iscrizione nei casellari giudiziari e la liberazione immediata. Fu riconosciuto per la prima volta in Italia in un processo politico il fatto che gli imputati avevano “agito per motivi di particolare valore morale e sociale”. Tutto era nato da una telefonata.