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Il ministro Giorgetti e la premier Meloni (foto Lapresse)
Giorgetti lo ammette senza perifrasi: «Io da ministro dell'Economia avrei approvato la riforma del Mes per ragioni economico- finanziarie ma per come si è sviluppato il dibattito negli ultimi giorni mi pare che non fosse aria. Non solo per motivazioni economiche».
Fuor di metafora, dal punto di vista tecnico ratificare la riforma sarebbe stato utile, secondo il ministro. Politicamente invece non era possibile: per Salvini sarebbe stato inaccettabile, a maggior ragione dopo che la trattativa sul patto di stabilità si era conclusa con quello che Giorgetti definisce diplomaticamente «un passo avanti». Per Meloni, a quel punto, approvare la riforma con il Pd e contro la Lega ( ma anche contro i 5S) sarebbe stato impossibile.
È probabile che quella del ministro sia una mezza verità.
Anche per lui la spinta ad approvare la riforma arrivava da motivazioni più politiche che strettamente tecniche. Non a caso, messo al corrente della scelta presa in dorata solitudine da Meloni e Salvini avrebbe commentato con uno sconsolato «Ce la faranno pagare». La premier ne era certamente consapevole da sola. Ha ritenuto che il prezzo da pagare in termini d'immagine, tanto più dopo la sostanziale resa sul patto di stabilità, fosse più temibile dell'ostilità europea. Quegli umor neri Giorgetti assicura di non temerli e neppure prevederli: «Sapevano che c'erano difficoltà», ricorda. Insomma, lui lo aveva detto e ripetuto che il passaggio parlamentare era a rischio. Un gioco delle tre carte, dal momento che la posizione del Parlamento, o della sua maggioranza, è stata decisa dai principali esponenti del governo.
È probabile che quello del governo italiano sia stato comunque un rischio calcolato. Il blocco della riforma del Mes è un boccone amaro per Bruxelles ma la scelta di non porre il veto sul patto di stabilità, nonostante le nuove regole siano destinate a creare parecchi problemi sia a questo governo che a quelli a venire, dovrebbe prevalere largamente. È probabile che sarà davvero così, anche perché la riforma del Mes sarebbe stata urgentissima a fronte di una crisi incombente delle banche, della quale però al momento non c'è traccia. Quanto al futuro, ci saranno tempo e modo, passate le elezioni europee, di rimettere mano alla riforma e di trovare una via per farla accettare anche dall'Italia. Sempre che non si verifichino terremotanti sorprese prima, cosa sempre possibile ma non probabile.
Eppure, nonostante non sia probabilmente destinata a produrre effetti deflagranti a breve né sul piano dei rapporti tra Italia ed Europa né su quello dei mercati, rimasti tranquilli proprio perché non si intravedono rischi bancari a breve, la scelta italiana di porre il veto a una riforma approvata da tutti gli altri Paesi resta potenzialmente esplosiva: sposta infatti drasticamente il quadro della visione strategica europea da una marcia, certo lentissima e accidentata, verso una dimensione comunitaria e federale al passo indietro, alla competizione feroce tra sovranismi, alla lotta sotterranea tra interessi nazionali divergenti.
Le ragioni dello strappo sono diverse e convergenti: la necessità di nascondere la resa sul Patto, l'intenzione di inviare un segnale a Bruxelles per far capire che quel cedimento non significa che l'Italia sia ormai domata e pronta a ingoiare tutto, soprattutto le considerazioni opportunistiche ed elettorali interne. Ma la giustificazione ufficiale è secca: «Non ci serve il Mes perché il nostro sistema bancario è solido». Posizione dalla quale deriva il pronunciamento di Salvini: «Pensionati e lavoratori italiani non devono rischiare di pagare per le banche straniere». Affossare una riforma approvata, voluta sponsorizzata da tutti i partner perché inutile alla luce dell'interesse di un singolo Paese è un passo la cui importanza e le cui conseguenze potenziali non devono essere sottovalutate. Ma l'Italia, va anche detto, si è mossa in assoluta coerenza con la visione degli altri grandi Paesi europei nella trattativa sul Patto, dalla Germania che ha fatto prevalere i propri interessi non solo economici ma anche di politica interna alla Francia che ha trattato sulla flessibilità con un occhio e forse qualcosa in più rivolto alle proprie
esigenze in materia di supporti europei per il nucleare in quanto “energia pulita”. Nella sagra dei sovranismi, dichiarati o negati ma praticati, ad affondare, negli ultimi giorni, è stata la chimera di un'Europa davvero comunitaria che si era affacciata nell'epoca già lontanissima del Covid.