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È molto difficile, diciamo pure impossibile, pensare che il capo dello Stato abbia scelto un'occasione e, più in generale, una fase politica a caso per un'esternazione importante come quella pronunciata due giorni fa nella sede di Casagit, la mutua dei giornalisti.
Il perché abbia voluto adoperare proprio un intervento in difesa della libertà di stampa per chiarire che la Costituzione non è lo Statuto albertino, che assegnava al re poteri legislativi, e che comunque il presidente «fortunatamente» non è il sovrano, in fondo è chiaro. È proprio quando vengono varate leggi che toccano o sfiorano la stampa e che vengono dunque considerate, a torto o a ragione, come tentativi di imbavagliare la stessa che le pressioni sul Colle perché blocchi quelle leggi si fanno più insistenti. Non sono quasi mai strilli, perché nessuno si permette di provare a imporre un comportamento al presidente: piuttosto sussurri e bisibigli però continui e martellanti. Va da sé che le testate, quando ci vanno di mezzo direttamente, sono particolarmente solerti nel chiedere, suggerire, invocare e quasi consigliare un intervento del Quirinale per affossare quelle leggi.
Mattarella, stanco, ha detto forte e chiaro che quegli interventi sono impossibili perché anticostituzionali. Non sta al capo dello Stato decidere se una legge è buona o no. Il suo ruolo istituzionale è solo quello di promulgare leggi che siano state correttamente approvate dai due rami del Parlamento, e che a lui personalmente sembrino buone, cattive o anche pessime leggi è irrilevante. In questo caso, dunque, il segnale del presidente era sì indirizzato ai partiti, che hanno spesso la pessima abitudine di invocare un suo intervento anche fuori luogo, ma non solo ai partiti. Destinatarie erano, a pari merito, anche tutte quelle voci, che condividono spesso quelle invocazioni costituzionalmente sgrammaticate.
Però Sergio Mattarella non si è fermato qui. Ha aggiunto altri due «chiarimenti» che aiutano a capire perché abbia deciso di esprimersi proprio in questo momento. Il presidente ha tenuto la sua lezione di diritto costituzionale anche a proposito del passaggio più scivoloso: l'incostituzionalità, vera o presunta, di una legge. È proprio in nome dell'incostituzionalità che si reclama spesso l'intervento del guardiano della Costituzione e in effetti capita che il Quirinale si muova in questo senso. Basti l'esempio della legge elettorale poi diventata tristemente nota come “Porcellum”. Quel sistema elettorale era nato con fattezze diverse, dal momento che adottava le stesse regole per la Camera e per il Senato. Fu l'allora presidente Ciampi a imporre, Carta alla mano, che venisse invece rispettato il dettato che impone l'elezione del Senato su base regionale, anche per quanto riguarda i premi di maggioranza. Mattarella ha voluto precisare che sì, quell'intervento è incluso nei poteri del presidente ma solo quando si trova di fronte a «profili di evidente incostituzionalità», insomma in casi clamorosi, come appunto quella legge elettorale, che non lasciano spazio a dubbi o disputa tra sottigliezze giuridiche. In quei casi, che sono la stragrande maggioranza, il verdetto non spetta al Colle ma alla Consulta. Mattarella ha così risposto in anticipo ai molti che si preparavano a chiedere, in questo caso anzi quasi a reclamare, il suo intervento per fermare la legge sull'autonomia differenziata, la cui approvazione definitiva è in calendario per aprile. A decidere se quella legge, cioè una riforma di dimensioni eccezionali, è davvero in contrasto con la Costituzione dovrà essere la Corte. Inutile aspettarsi che ci pensi lui. È vero che altri presidenti della Repubblica hanno interpretato il loro mandato in modo ben più estensivo ma non è lo stile di Mattarella che, al contrario, sul rispetto assoluto del ruolo assegnato dalla Costituzione al presidente è rigidissimo.
Se Mattarella si fosse fermato qui la maggioranza avrebbe avuto tutte le ragioni di fregarsi le mani soddisfatta. Ha aggiunto però, quasi di sfuggita, una terza e fondamentale specifica: proprio perché la parte che spetta al presidente è solo quella di promulgare le leggi una volta accertato che l'approvazione delle Camere si è svolta correttamente e che non ci sono profili di palese incostituzionalità, la sua firma non implica affatto la sua personale approvazione delle leggi che promulga. Qui il monito sottinteso è rivolto alla maggioranza e all'uso, del tutto errato, di impugnare la firma del capo dello Stato come prova della bontà di una legge. L'inquilino del Quirinale parlava certamente in generale ma probabilmente anche in vista della principale legge che questo governo intende varare: la riforma costituzionale. Proprio il rispetto del suo ruolo e delle regole che lo limitano Mattarella non dirà niente su quella legge né oggi né quando il referendum più importante da quello del 1946 che decise il passaggio dalla monarchia alla repubblica sarà a un passo dall'essere celebrato. Guai però a credere che il suo silenzio sia anche assenso politico, che cioè quella riforma lo convinca. È lecito ipotizzare che troverà modo di far capire cosa ne pensa, pur senza mai debordare dai confini del suo mandato. In fondo lo ha fatto anche due giorni fa, magnificando «l'armonico disegno che la Costituzione indica e presenta in modo ammirevole per coloro che la scrissero, trovando accordi in condizioni difficili». Tutto quel che della riforma di Giorgia Meloni proprio non si può dire.