E‘ un po’ come tornare a Von Clausewitz, alla guerra che è una forma di politica con altri mezzi. E infatti nel pieno dell’oceano proporzionalista sul quale navigheranno le forze politiche nella campagna elettorale e nel prossimo Parlamento, Matteo Renzi infila a pelo d’acqua uno scoglio maggioritario, di quelli che se non te ne accorgi in tempo squarciano la carena e provocano il naufragio. Succede quando il leader Pd, con voluta nonchalance, butta lì che in una «democrazia compiuta» il premier non può essere altri da chi prende più voti nelle urne. E’ l’esatto contrario di coloro che si spendono affinché ruoli e incarichi si definiscano in un secondo tempo, a urne chiuse, al tavolo della trattativa post elettorale. E’ in contrario anche di chi tifa per il pareggio, anzi il “tripeggio”, ossia la ripetizione del verdetto del 2013 quando l’Italia dovette prendere atto che era nato il tripolarismo e che c’erano tre forze politiche di eguale consistenza, incapaci di trovare alcuna sintesi unitaria. Con un pizzico di malizia, si potrebbe fare un parallelismo tra quella impasse e l’ingovernabilità che potrebbe essere il segno distintivo del prossimo Parlamento. Allora - va bene dire con il cappello in mano? - alcuni dei principali leader supplicarono Giorgio Napolitano di accettare la rielezione. Stavolta, con meno drammatizza- zione e più iattanza, gli stessi o anche altri, potrebbero reclamare la permanenza a palazzo Chigi di Paolo Gentiloni. In entrambi i casi, un collasso del sistema politico.

Lo scoglio renziano sta lì apposta per bucare le aspirazioni di chi ha in uggia il responso dei cittadini. Fatte salve, naturalmente, le intoccabili prerogative costituzionali del capo dello Stato cui, unicamente, spetta l’assegnazione dell’incarico di governo, affidare agli elettori la scelta di chi deve fare il presidente del Consiglio mediante la sola legittima competition democratica, appunto il voto dei cittadini, significa infatti ribaltare gli schemi sempre un tantino pelosi delle lobby, delle elites, dell’establishment, e tornare ad un bilanciamento di poteri in cui non un sinedrio di capi bensì milioni di italiani stabiliscono da chi vogliono essere guidati.

Qualcuno potrebbe parlare a questo punto di una sorte di perversa ossessione ( tanto la psicanalisi politica è di moda, no?) renziana; della boriosa cocciutagine di chi non si rassegna ad accettare il negativo verdetto sul referendum costituzionale.

E’ possibile: il carattere è quello che è e non si cambia. Volendo usare l’epiteto che gli scagliano contro i suoi avversarti, Matteo bullo è e bullo rimarrà. Anche se fa salire un nostalgico sorriso sulle labbra ricordare le parole di Sandro Pertini secondo cui «ogni uomo di carattere ha un cattivo carattere». Lasciamo stare e veniamo al sodo. Ribadire che la premiership deve essere appannaggio del leader che prende più voti significa che Renzi alle elezioni politiche intende comunque presentarsi nelle vesti di candidato alla guida dell’esecutivo: chi punta su eventuali rovesci Democrat nelle regionali siciliane per sbarrargli la strada, si illude. Inoltre la tattica dell’ex sindaco di Firenze fa il paio con quella di un altro leader adesso assai più in auge, Silvio Berlusconi, che pure è diventato campione del proporzionale e tuttavia, con una delle sue tradizionali piroette, per sbrogliare la matassa della leadership - in attesa di capire chi davvero concorrerà nelle liste - non trova di meglio che adottare il medesimo schema renziano: chi prende più voti nell’arcipelago del centrodestra tra Fi, Lega, Fdi e quant’altri taglia corto, vince e va a palazzo Chigi.

Quella di Renzi è una convinzione che schiude anche ad altri scenari. Più d’uno, infatti, lo aspetta al varco dell’autunno per reimpostare la possibile trattativa sulla riforma elettorale. Con quel precetto in mente, ancor più si capisce che il numero uno del Nazareno butta la palla in tribuna quando afferma che serve il consenso anche di FI e Cinquestelle. Il vero limite, il non possumus sul quale Matteo non farà marcia indietro, è l’eventuale via libera ad un meccanismo che riconsegni il potere di decidere il premier alla trattativa dopo il voto. «Altri vorrebbero tornare ai tavoli della Prima repubblica. Io preferisco il modello europeo, dove fa il premier chi prende più voti e non chi raccoglie meno veti», sibila Matteo Orfini: chiaro, no?

Vuol dire che quasi certamente il sistema di voto resterà quello attuale: premio di maggioranza alla lista per la Camera, sbarramento all’ 8 per cento al Senato, altri scogli maggioritari nel mare magnum poroporzionalista. Vuol anche dire che una volta chiusi i seggi la sagoma di Gentiloni sfumerà sullo sfondo, mentre ad ottenere da Mattarella le chiavi per la costituzione del nuovo governo sarà chi avrà mietuto più consensi nelle cabine elettorali. Se poi riuscirà a meno ad allestire una maggioranza è tutt’altro paio di maniche. Ma se così andrà, l’iceberg maggioritario avrà avuto la meglio sul Titanic proporzionalista. La storia, del resto, non dice esattamente questo?