Anche dopo Tallinn la domanda non cambia: perché l’Europa ci snobba, sull’immigrazione e non solo? Perché la sensazione è che contiamo così poco? Certo, possiamo inveire contro gli egoismi nazionali o discettare sulla diarchia Germania- Francia. Ma sono atteggiamenti consolatori. L’ignavia nell’eludere la voragine- debito affossa la richieste dell’Italia alla Ue

La ragione vera è un’altra: solo che nessuno la vuol sentire e preferisce tapparsi le orecchie. La verità è che c’è un oscuro non detto nei rapporti tra l’Italia e i partner europei. Che avvelena l’immagine e la credibilità italiana. Che cortocircuita qualunque discussione e qualsiasi trattativa, compresa quella, delicatissima ed esplosiva, sugli scafisti e sui barconi di clandestini. Un vero e proprio convitato di pietra anche e soprattutto perché gli italiani stessi - non semplicemente il ceto politico né l’establishment inteso in senso lato: proprio i cittadini nel loro insieme - lo tacciono affondandolo nel retrobottega della mente e dei cuori. Il non detto ha un nome che solo a pronunciarlo si fa fatica: duemiladuecentosettanta miliardi di euro. E’ il totale del debito pubblico italiano che, contrariamente alle continue rassicurazioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, è cresciuto mese dopo mese stracciando ogni record. Se il cosiddetto “asse del Nord” ci snobba; se Merkel e Macron declinano i loro interessi ignorandoci; se sui dossier strategici alcuni Paesi dell’ex blocco sovietico tipo la Polonia finiscono per contare più dell’Italia la ragione vera non va ricercata nelle alchimie pre- elettorali dei singoli Stati ( che pure ci sono, e contano) o nella volontà di ignorare una dramma epocale come l’esodo delle popolazioni africane. La realtà è che il buco nero del debito italiano toglie forza alle richieste - in tanti casi più che legittime e fondate - di Roma, collocandoci in una posizione inesorabilmente subalterna. E ancor più della cifra, per la sua immensità riconducibile ai fantastiliardi dei fumetti di Paperone, ciò che ci toglie ossigeno e autorevolezza è il fatto che nessun governo, di nessun colore maggioranza e composizione, ha fin qui impostato un credibile piano di rientro, con misure fondate e valutabili. Ciò avviene perché ogni governo teme l’impopolarità conseguente al disvelamento di un simile fardello e dei sacrifici che comporterebbe scrollarselo di dosso. Più ancora, pesa il fatto che gli italiani stessi del debito non ne vogliono sentir parlare: o ne fanno carico alle generazioni e a i governanti precedenti come se la faccenda non li riguardasse, oppure tranquillamente lo ignorano immaginando che in questo modo il problema sia superato. I Cinquestelle tempo fa: ora non se ne parla più - che assicurano: il debito? non lo paghiamo e basta, presumibilmente esprimono il sentimento della parte ultra maggioritaria degli italiani.

Più che nascondere la polvere sotto il tappeto ( peraltro impossibile: sarebbe troppa) è l’atteggiamento di chi sta scivolando verso il burrone e chiude gli occhi sperando che sia solo un brutto sogno. Al contrario. L’enormità del debito fa sì che il bilancio pubblico abbia margini ristrettissimi visto che solo per pagare gli interessi l’Italia ogni anno deve trovare tra i sessanta e gli ottanta miliardi di euro. E’ una zavorra che impedisce un intervento serio di riduzione fiscale. Oppure di rilancio degli investimenti.

A chi ritiene che si tratti di elementi solo contabili può essere utile riandare alla storia recente. Alla defenestrazione di Berlusconi nel 2011 per esempio, maturata sul famigerato spread. Alla visita di Giorgio Napolitano alla Cancelliera Merkel e alle scelte pesantissime del governo Monti, messo su in quattro e quattr’otto dal Quirinale precipuamente per fronteggiare l’emergenza economica, evitare il default con epilogo argentino e il pericolo di non poter pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, come spiegò il premier in loden. Ai sorrisini della stessa Merkel e di Sarkozy. Alla defenestrazione di Enrico Letta sulla quale ha pesato la voglia di Matteo Renzi di acchiappare i refoli di ripresa economica. Al fiscal compact, che il governo italiano ha volontariamente sottoscritto e che ieri era la miglior polizza in mano all’Italia per restare al tavolo dei decisori e che adesso è diventata una camicia di forza da strappare a tutti i costi. Per non parlare delle accuse in base alle quali l’emergenza migranti è frutto della disponibilità italiana ad accogliere i clandestini in cambio di flessibilità sui conti pubblici. Accuse improbabili, ma il fatto stesso che siano lanciate spiega il groviglio di paradossalità che avvolge come un sudario la situazione economica italiana. Se le cose stanno così invece di minacciare ritorsioni che, come la chiusura dei porti o il rifiuto di pagare il bilancio comunitario, si rivelano evanescenti e pericolose - che succederebbe infatti se la speculazione tornasse a prendere di mira il nostro Paese? E se davvero l’Italia si allontanasse dalla Ue, con quali risorse garantirebbe il rispetto del pagamento degli interessi? - sarebbe davvero rivoluzionario se la “narrazione”, di cui volente o nolente si dovrà dotare chi si ritroverà a governare nel 2018, mettesse in cima alle priorità il rientro dal debito. Allora sì i pugni battuti sul tavolo acquisterebbero un peso determinante. In caso contrario, demagogia e populismo dilagheranno. A quel punto prendersela con la Ue sarà la pietra legata alle caviglia: buona per affondare.