Molti si aspettavano che al termine della riunione dell'Eurogruppo di lunedì scorso venisse annunciata la decisione italiana di ratificare la riforma del Mes, dando così il via libera alla revisione delle regole. Oltre all'Italia manca infatti solo la firma della Croazia, ma solo perché è entrata nell'Unione e nell'Eurozona da pochi giorni.

Gli esiti del vertice sono stati però lievemente diversi dal previsto: nessun annuncio e al contrario una felpatezza estrema. Dal presidente dell'Eurogruppo Pascal Donohoe al direttore del Mes Gramegna sino al commissario europeo tutti, pur dicendosi «fiduciosi», hanno sottolineato che la scelta spetta solo al Parlamento italiano, che non sarebbe «appropriato» dire al governo e al Parlamento italiano cosa debbano fare, che bisogna lasciare all'Italia il tempo necessario.

Uno sforzo di diplomazia così ostentato ha un significato chiaro: il governo italiano ha assicurato che la firma dell'Italia ci sarà, sgombrando così il campo da ogni possibile tensione, ma ha anche chiesto di procedere con massima cautela e rispetto, essendo la faccenda delicata.

Si tratta di far accettare a due partiti che da sempre considerano il Mes come uno strumento del demonio di legittimarlo sottoscrivendone la riforma. Se con FdI il gioco per Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti è facile con la Lega lo è molto di meno.

Il problema è reale ma il governo di Roma ha anche tutto l'interesse a drammatizzarlo perché, di qui all'approvazione parlamentare del ddl che il governo presenterà per sottoscrivere la riforma, tratterà strenuamente con Bruxelles per ottenere quella che il ministro Tajani definisce «flessibilità sul Pnrr» e la resa sul Mes, se non proprio merce di scambio, è una carta importante da giocare su quel tavolo.

Al di là delle formule rituali il problema è che la richiesta dell'Italia non è solo un ritocco del Piano presentato da Draghi.

Se fosse tutto lì non ci sarebbero problemi. Per quanto rigide possano essere alcune capitali, tutti si rendono perfettamente conto di quanto sia cambiata la situazione e nessuno immagina di poter fare finta di niente. Però le modifiche di cui l'Italia ha bisogno non sono affatto di piccola portata. Inflazione e un aumento del prezzo delle materie prime nell'ordine del 30 per cento hanno fatto lievitare i costi col rischio assolutamente concreto che molte gare d'appalto vadano a vuoto ed è già successo per 40 stazioni di rifornimento a idrogeno più quelle per i treni a idrogeno, investimento previsto ma reso non più strategico e appetibile in seguito alla crisi energetica.

Nella migliore delle ipotesi le opere pubbliche previste dal Piano andrebbero abbastanza dunque drasticamente ridotte ma anche per quelle più importanti come il raddoppio della linea ad alta velocità Salerno- Reggio Calabria, la più costosa fra le opere previste con un costo di 22 miliardi, ci sono dubbi sulla effettiva utilità.

Il governo ha poi già iniziato a modificare la governance modellata da Draghi al vertice, ma intende proseguire anche nelle varie Regioni il cui ruolo nella effettiva costruzione delle opere previste è determinante e anche qui occorre il semaforo verde di Bruxelles. Infine è necessario che i previsti controlli siano sì effettivi ma anche duttili, tenendo conto della tradizionale difficoltà nel trasformare in investimenti reali i fondi europei.

Le norme che regolano la possibilità di modificare il Piano sono molto strette. Lo Stato che chiede la modifica deve dimostrare che il progetto presentato non è più attuabile per “motivazioni oggettive” e poi presentare alla Commissione una richiesta motivata di revisione che deve essere valutato ed eventualmente accolto dalla Commissione stessa. L'Italia non intende arrivare a questo punto ma di colloqui sulla possibilità di modificare in parte il Pnrr ce ne sono già stati parecchi.

Sin qui la Commissione è rimasta molto rigida anche se più sulle riforme in cantiere, che non sono neppur minimamente trattabili, che non sulla implementazione dei progetti, dunque sul vero problema per l'Italia. La speranza di Giorgia e del ministro Giorgetti è che, un po' per la prova di affidabilità offerta accettando la riforma del Mes, un po' grazie al classico “scambio” la vicenda del Mes dia una mano robusta sul tavolo ben più importante del Pnrr.