Se Massimo D’Alema è stato il primo e sinora unico dirigente proveniente dal Pci e salito alla guida di un governo in Italia, presiedendone addirittura due in un solo anno e mezzo, Giorgio Napolitano è stato il primo e unico a salire ancora più in alto, al Quirinale. Ma già prima era stato ministro dell’Interno al Viminale: un’altra postazione che sembrava impossibile per un politico della sua provenienza.

Al Quirinale da presidente della Repubblica egli si guadagnò in breve tempo, per l’energia messa nell’esercizio delle sue funzioni, il soprannome più cordiale che critico di “Re Giorgio”. E vi rimase non per sette anni, quanto dura il mandato del capo dello Stato, ma nove, essendo stato confermato quasi plebiscitariamente alla scadenza, nel 2013, con 738 voti su 1007 fra senatori, deputati e delegati regionali. La prima volta i voti favorevoli erano stati 543.

Il presidente rieletto sarebbe rimasto per tutto il secondo mandato, sino al 2020, se volontariamente non vi avesse rinunciato dopo due anni per stanchezza fisica dichiarata ma francamente dubbia. Ho sempre avuto il sospetto che egli avesse lasciato per un misto di delusione e preoccupazione procuratogli dai metodi un po’ spicci, diciamo così, con i quali Matteo Renzi, da lui nominato presidente del Consiglio nel 2014, guidava il governo e insieme il Pd, dove erano confluiti i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli ambientalisti e liberali. Proprio per quei metodi spicci, ostentati presentandosi al Senato con le mani in tasca e l’annuncio che quella che stava chiedendo sarebbe stata l’ultima fiducia di quell’assemblea ad un governo, la riforma costituzionale cui tanto teneva anche il capo dello Stato sarebbe stata bocciata in un referendum improvvidamente trasformato dal presidente del Consiglio in un plebiscito su se stesso. Ma a quel punto, per stanchezza -ripeto- dichiarata ma dubbia, Napolitano aveva già lasciato il Quirinale, sostituito da Sergio Mattarella.

Nei nove anni di Presidenza della Repubblica Napolitano non era mai riuscito a raggiungere la popolarità del socialista Sandro Pertini, l’uomo più a sinistra che lo avesse preceduto al vertice dello Stato. Lui, del resto, nell’esercizio delle sue funzioni non aveva mai puntato sulla popolarità, anche a costo di strappi come quelli compiuti da Pertini sostituendosi al governo nella composizione di una vertenza dei controllori di volo che minacciava di paralizzare il traffico aereo, quanto sull’ordine nei rapporti fra le istituzioni, anche a costo di procurare grosse delusioni a chi magari aveva fatto qualche affidamento su di lui non dico per sovvertire quell’ordine ma per ricavarne un vantaggio nella eterna lotta politica.

Nell’autunno del 2010, per esempio, l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini ruppe clamorosamente la maggioranza di centrodestra che lo aveva peraltro portato al vertice di Montecitorio in cambio del ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Una mozione di sfiducia contro il governo promossa dai finiani, e preparata sin nell’ufficio dello stesso Fini, venne praticamente bloccata da Napolitano intimando di fatto alle Camere di sgomberare prima il campo dall’adempimento dell’obbligo di approvare entro la fine dell’anno il bilancio dello Stato. E quando la mozione fu finalmente messa ai voti perse Fini e vinse Berlusconi, che nel frattempo aveva voluto e saputo serrare le file del centrodestra.

La crisi sopraggiunse dopo un anno, con l’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi, previa la sua nomina a senatore di a vita con la voglia peraltro di Berlusconi di controfirmane la nomina, ma non per questo la situazione politica svoltò a favore di Fini. Che nelle elezioni anticipate del 2013, pur ricandidandosi alla Camera in uno schieramento allestito a sorpresa da Monti, non riuscì a tornarvi.

Non meno forte -credo- fu la delusione procurata da Napolitano all’amico ed ex compagno di partito Pier Luigi Bersani nel 2013, quando gli tolse l’incarico affidatogli di presidente del Consiglio, declassandolo a pre-incarico, per impedirgli di formare un governo poco ortodosso, diciamo così, per la nostra Costituzione: un governo dallo stesso Bersani definito con una certa imprudenza “di minoranza e combattimento”. Esso avrebbe dovuto guadagnarsi strada facendo la fiducia e non so cos’altro dei grillini arrivati in Parlamento per aprirlo come una scatola di tonno o sardine.

Di militanza comunista, avendo visto nella forte organizzazione del Pci una condizione decisiva per la lotta al fascismo, ma di formazione culturalmente liberale, come per certi versi il più anziano Giorgio Amendola, non fu certamente per caso che Napolitano si trovò spesso al Quirinale a ispirarsi all’azione e alle prediche per niente inutili di Luigi Einaudi. Al quale si richiamò, per esempio, motivando il clamoroso ricorso alla Corte Costituzionale contro il sostanziale tentativo della Procura di Palermo di coinvolgerlo nelle indagini e nel processo, intercettandone il telefono, sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia negli anni delle stragi. Di Einaudi, in particolare, Napolitano ricordò il monito ai successori a trasmettere intatti i poteri del presidente della Repubblica, da chiunque minacciati: anche da una magistratura il cui Consiglio Superiore peraltro è costituzionalmente presieduto dallo stesso Capo dello Stato.

Quel ricorso di Napolitano alla Corte Costituzionale è generalmente indicato fra gli atti più significativi della sua Presidenza con riferimento ai rapporti fra politica e giustizia, o fra politica e magistratura. Senza volergli togliere nulla, per carità, e liberandolo dall’aspetto personale sostanzialmente rimproveratogli da un critico come il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, che immaginò i giudici della Corte quasi intimiditi dall’iniziativa di Napolitano che ne aveva nominati alcuni, considero ancora più significative, sul piano politico e istituzionale, le distanze dalla magistratura prese da Napolitano commentando la vicenda giudiziaria di Bettino Craxi.

Ciò avvenne in una lettera pubblica alla vedova scritta nel decimo anniversario della morte del leader socialista. In essa il presidente della Repubblica e -ripeto- presidente del Consiglio Superiore della Magistratura lamentò due cose delle quali non so francamente quale possa e debba tuttora considerarsi più grave: il “brusco cambiamento” intervenuto nei rapporti fra giustizia e politica, e quindi nell’equilibrio fra i poteri, con la gestione delle indagini sul finanziamento tanto illegale quanto diffuso dei partiti e la “severità senza pari” -testuale anch’essa- adottata contro Craxi. Del quale peraltro Napolitano anche nel Pci, da dirigente di minoranza, aveva preso le difese politicamente in anni ben precedenti alle cosiddette “Mani pulite”: per esempio, all’epoca della cosiddetta “solidarietà nazionale”, contestando la discriminazione contro i socialisti accettata o -peggio ancora- chiesta da Enrico Berlinguer per appoggiare dall’esterno, tra astensione e regolare voto di fiducia, un governo monocolore democristiano: del quale non facessero parte i comunisti ma neppure i socialisti, appunto.