Nei lunghi e impietosi corridoi della Camera, dove il battutismo si mescola all’analisi politica e il retroscenismo alla cronaca, gli amici del vice presidente forzista Giorgio Mulè - amici naturalmente in senso lato, comprensivi quindi anche dei colleghi di partito che non la pensano esattamente come lui lo hanno promosso al «nostro Macron».

Quello vero, Emmanuel, il presidente della Repubblica francese, è su tutti i giornali per il rifiuto opposto durante e dopo la sua recente visita a Pechino, costellata di buoni affari per il suo Paese, alla realtà o prospettiva di un’Europa «vassallo» - o vassalla, se si potesse dire - di qualcuno, a cominciare dagli Stati Uniti. I cui interessi sempre meno di frequente coinciderebbero con quelli del vecchio continente meritevole di diventare un terzo polo, auguralmente più fortunato di quello in via di costruzione in Italia, a fini soli di politica interna, da parte di Carlo Calenda e di Matteo Renzi. Il quale ultimo peraltro si compiace ogni qualvolta viene da qualche ammiratore, o da qualche avversario in senso sarcastico, indicato proprio come il Macron italiano capace di marginalizzare insieme la sinistra e la destra.

Ma con Mulè siamo in un campo ancora più ristretto: quello del centrodestra nostrano finito per consistenza elettorale e di governo sotto la guida di Giorgia Meloni. Dove il vice presidente della Camera, come ha appena detto in una intervista alla Stampa e al confratello Secolo XIX, non ha nessuna intenzione di partecipare alla temuta trasformazione dei forzisti in «replicanti di Fratelli d’Italia». E se questa prospettiva dovesse davvero piacere, dopo il mezzo terremoto avvenuto nel partito appena prima del ricovero di Silvio Berlusconi in terapia intensiva all’ospedale San Raffaele di Milano, allo stesso Berlusconi, alla figlia Marina, alla quasi moglie Marta Fascina e ad altri del cosiddetto cerchio magico appena aggiornato, Mulè non mostra di essere timoroso, frenato, imbarazzato e via discorrendo. A lui basta e avanza, col conforto della festa di Pasqua appena celebrata, la fede in Berlusconi e nel suo ritorno in pieno alla politica e alla guida del partito, se mai avesse dovuto un po’ disinteressarsene nel nuovo ricovero ospedaliero. Che non a caso non gli ha impedito - per quanto, ripeto, in terapia intensiva - di fare e ricevere telefonate e di incontrare quotidianamente familiari ed amici. «Tutte le altre professioni di fede, come ad esempio la fedeltà al governo Meloni sono dissonanti», ha detto il Macronino di Montecitorio.

Ma «se Berlusconi dovesse essere sempre meno presente nella vita del partito, come si dovrebbe comportare Forza Italia?», ha insistito l’intervistatore Francesco Olivo, forse condizionato dal medico curante dell’illustre infermo appena espostosi in una polemica con chi è convinto che l’ex premier sia ormai già in forma. Ebbene, «servirebbe ha risposto Mulè parlando ad Olivo ma forse pensando anche alla Fascina, a Marina, a Fedele Confalonieri, a Gianni Letta, ad Adriano Galliani eccetera - un supplemento di maturità, ovvero quello che Berlusconi ha sempre fatto: trovare nella coalizione (di governo) dei compromessi nonostante i rapporti di forza che ci darebbero perdenti».

Se qualcuno ha scambiato il ridimensionamento della capogruppo al Senato Licia Ronzulli, privata del coordinamento del partito in Lombardia, e la sostituzione di Alessandro Cattaneo alla guida del gruppo della Camera con Paolo Barelli, che ha definito «originali» le posizioni del vice presidente di Montecitorio, in un cambiamento o correzione di linea politica, si è sbagliato di grosso. Quella degli avvicendamenti, ridimensionamenti e simili «è una vicenda - ha sostenuto Mulè - di cui ancora bisogna scrivere la storia. Alessandro e Licia altro non hanno fatto che essere la voce parlante di Berlusconi. Non sarà il cambio di un assetto a determinare la mutazione del nostro codice genetico». Come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani dicevano di quello del Pd cambiato a suo tempo da Matteo Renzi.

Sempre all’intervistatore che aveva ostinatamente ripreso a parlare di successione al Cavaliere chiedendogli se «toccherà ad Antonio Tajani», che già lo rappresenta al governo come vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, e continua ad essere considerato titolare dell’incarico pur inesistente formalmente di coordinatore nazionale del partito, Mulè ha opposto questa interruzione: «La fermo subito. Io non penso alla successione di Berlusconi. Fino a quando c’è lui io non dedico nemmeno un minuto a pensare a cosa ci sarà dopo». O a pensare - altro tema postogli dal giornalista della Stampa - all’ «antipatia personale» manifestatagli dal presidente del Senato Ignazio La Russa. «Se lui avesse l’idea ha detto Mulè - di quanto importa a me di stargli antipatico, avrebbe l’idea dell’immensità». O dell’Infinito leopardiano, come non gli è scappato di aggiungere.

Con queste premesse, chiamiamole così, ancora freschissime di stampa immagino la fine riservata da Giorgio Mulè ieri mattina alla pagina della rassegna stampa della Camera riportante un articolo del Foglio costruito attorno ad alcune dichiarazioni di Pier Ferdinando Casini, già socio del centrodestra ma da qualche tempo ospite a tutti gli effetti del Pd, titolato «Forza Italia è Giorgia», al femminile. Che secondo «l’ultimo democristiano», come Casini si autodefinisce orgogliosamente, la successione di Berlusconi se la sarebbe già «presa» stando a Palazzo Chigi da quasi sei mesi.