Non si tratta più del “se” ma del “come”, nel senso di come dirlo e farlo ingoiare a Salvini. La ratifica del Mes da parte dell'Italia era inevitabile e lo si sapeva da subito dopo il semaforo verde della Corte costituzionale tedesca. Senza la firma della Germania l'Italia poteva tergiversare. Con quella firma, rimasta sola, non può permetterselo. Ora la decisione è praticamente ufficiale, siglata dalle parole del ministro degli Esteri, l'esponente del governo che materialmente dovrà apporre la sua firma: «Se chiediamo flessibilità sul Pnrr dobbiamo essere flessibili sulla ratifica del Mes». Ma confermano, ipocrisie diplomatiche a parte, anche i commissari europei competenti, Gentiloni e Dombroviskis. Il primo conferma che a decidere deve essere il governo italiano però è «fiducioso». Il secondo si complimenta per «i passi avanti» fatti su quel percorso obbligato.

La stessa sceneggiata allestita dalla sentenza di Karlsruhe in poi, coronata dalla richiesta di ritoccare la riforma avanzata dalla premier italiana nell'incontro con il presidente del Mes della settimana scorsa aveva esclusivamente questa funzione: dimostrare agli alleati, ma anche al partito di Giorgia che fino a pochissimo tempo fa era altrettanto ostile al Mes, che si è fatto quanto possibile per evitare di apporre la firma ma oltre un certo confine non si può andare. Non dopo essere rimasti isolati, unico Paese a negare ancora la firma su 19 dell'eurozona. Non dovendo chiedere alla Ue di chiudere un occhio sulle realizzazioni concrete del Pnrr, sulla modifica della governance proposta da Draghi e accettata da Bruxelles, su un rimaneggiamento del progetto complessivo che non si limiterà a limature.

Naturalmente la ratifica sarà accompagnata dall'impegno più solenne e stentoreo a non chiedere mai il prestito del Mes. Non fino a che questo governo resterà in carica almeno. In effetti, messe così, le cose non si capisce però bene perché il governo italiano si opponga con tanta veemenza a una riforma che, dato l'impegno assunto,

non dovrebbe avere alcuna ricaduta sull'Italia. In parte è davvero una questione di bandiera. Il Mes, dopo il caso greco, ha assunto comprensibilmente connotati sinistri. Contrastarlo è una questione di principio e il problema non riguarda solo la destra. Il prestito del Mes sanitario, che rispondeva a regole molto diverse da quelle abituali e dunque sarebbe stato preso in ben altra considerazione dal governo Conte 2 con un nome diverso da quello aborrito. Fu invece rifiutato, nonostante l'utilità di quei 37 miliardi a condizioni estremamente favorevoli per la nostra Sanità pubblica in ginocchio in buona misura perché era comunque “un prestito del Mes”.

Però non c'è solo questo. La riforma migliora in apparenza ma peggiora nella sostanza le regole. A fronte di una situazione disastrosa dei conti pubblici il Mes imporrebbe la ristrutturazione del debito italiano, a condizioni molto rigide, senza neppure bisogno di passare per il vaglio politico della Commissione europea. Certo, nulla fa pensare che oggi che i conti italiani possano trovarsi a breve in quella condizione disastrosa. Ma nulla neppure permette di escludere tassativamente e a lungo termine quella sciagurata evenienza. Nonostante le fiorite dichiarazioni di Gentiloni il governo italiano, se potesse davvero scegliere in piena libertà, negherebbe la firma e non solo per questioni di nomi e bandiere ma anche per il rischio reale che le nuove regole dell'ex “fondo salva Stati” impongono. Però non può. Le resistenze interne a Fi, che pure ci sono, non sono tali da impensierire palazzo Chigi: la posizione di Tajani è chiara e definitiva. FdI si piegherà senza un secondo di esitazione a qualsiasi decisione della premier.

Ma con la Lega le cose stanno diversamente. Nella Lega c'è una componente anti Ue che non si uniformerà comunque: Borghi ha già annunciato il suo no comunque. Ma soprattutto una leader in ascesa come Meloni ha gioco facile nell'imporre la sua volontà. Per un leader in crisi come Salvini la situazione è opposta. Certo, che la Lega da sola contro tutti blocchi la riforma è quasi fantapolitica. Ma che chieda una contropartita pesante sull'altro fronte delicatissimo della maggioranza, quello dell'autonomia differenziata, invece non lo è affatto.