No, proprio no. Passando in rassegna i risultati dell'uragano Trump, sempre più l'idea di indossare i panni del "lovable loser", cioè dell'amabile perdente, a Matteo Renzi proprio non piace. Intanto perché perdere è un verbo che l'inquilino di palazzo Chigi non vuole declinare. E poi perché rifiuta in radice l'aggettivo: «Io sono cattivo, lo preferisco», ha spiegato nello studio di Giovanni Minoli. Perciò la linea è quella indicata dal ministro Delrio: «Grillo ha ragione a dire che la vittoria di Trump è stata un gigantesco vaffa all'establishment e alla casta. Noi però non siamo establishment, Matteo non è parlamentare e nemmeno io». E' la stampigliatura giusta e sufficiente da presentare agli italiani per vincere il 4 dicembre? Forse. Ma forse no.Il punto è che dopo Brexit, elezioni austriache, presidential campaign a stelle e strisce e altri innumerevoli esempi, è impossibile negare l'evidenza e la forza dello tsunami contro le classi al potere - che si nutre e gonfia di paure, risentimenti, incertezze - che sta spazzando via ogni residua forma di resistenza istituzionale attuata secondo i canoni tradizionali. Così le urne, in ogni luogo delle due rive dell'Atlantico, diventano altrettanti vasi di Pandora da dove tracima il malmostoso sentimento di rivolta degli elettori contro chi, a loro insindacabile e definitivo giudizio, non li protegge né salvaguarda a sufficienza. E che normalmente staziona nei palazzi del potere.Come spiega Giuliano da Empoli, animatore del renziano think tank "Volta", nell'animo di chi vota «ciò che è virale è vero, l'esperienza è un disvalore, l'innovazione fa paura, la distruzione fa premio sulla costruzione». Tradotto in linguaggio più politicamente concreto per l'agenda del premier, ciò che davvero è decisivo è la risposta al seguente dilemma: ai fini di un positivo risultato referendario è più rischioso fare spallucce e rigettare indebiti parallelismi e improprie ripercussioni tra ciò che avviene sotto altre latitudini confidando nella diversità e specificità dell'agone italiano, oppure il pericolo di un effetto a catena è reale e dunque bisogna impostare una vincente strategia anti-populista? E in questo caso: di chi tipo?Dilemma coinvolgente. Ma anche in certa misura ingannevole. Gli automatismi in politica sono labili e dunque così come l'endorsement della cancellerie non è detto si traduca in consensi al momento del voto, alla stessa stregua nessuno può fondatamente sostenere che l'Occidente populista debba per forza di cose annoverare anche Roma tra le capitali espugnate.Tuttavia pur se nell'inner circle renziano nessuno lo ammette pubblicamente, il timore che l'onda d'urto antipolitica si riversi anche nell'appuntamento della consultazione popolare sulle modifiche alla Costituzione c'è, e cresce. In fondo i cittadini non hanno molti mezzi per far sentire il peso del loro scontento. L'arma più sostanziale a disposizione è il voto, e gli elettori appena possono lo usano; poco importa se il tema elettorale specifico parla di tutt'altro.Ma, appunto, quale diga si può opporre all'uragano "contro"? Vero è che c'è una parte di opinione pubblica che di fronte a tanto furore negativo si interroga e magari decide di sostenere lo statu quo per timore di avallare disordine e confusione. Per cui ci può essere chi alla fine vota Sì non perché persuaso della bontà della riforma ma solo perché spaventato dalle conseguenze e dagli effetti collaterali di un pronunciamento che mina la stabilità. Solo che allo stato non sembrano così tanti. Parlare di sondaggi in questi momenti può scatenare ilarità, ma dietro le quinte dell'ufficialità si nascondono numeri tutt'altro che rassicuranti per Renzi. Numeri che dicono che la forbice a favore del No è più larga di quanto finora appaia.Perciò si torna al punto di partenza. Se ignorare l'antipolitica non si può, qual è il mezzo migliore per contrastarla? Il premier ha provato a usare l'omeopatia. Ha cercato cioè di combattere il populismo ritorcendo contro le sue stesse parole d'ordine. I manifesti inneggianti al taglio dei costi e delle poltrone in virtù dell'approvazione della riforma rientrano nel novero. Però il grillismo da palazzo Chigi è arma difficile da maneggiare ed è a fortissimo pericolo boomerang. Non a caso in questi mesi l'appeal mediatico e la forza politica dei Cinquestelle, nonostante le non esaltanti prove di Roma e di altre amministrazioni minori, non sembra aver subito flessioni: al contario. Nè d'altro canto il capo del governo è riuscito nell'impresa di svuotare il serbatoio elettorale del berlusconismo: nonostante incursioni sia politiche che programmatiche attuate facendo proprie parole d'ordine finora tipiche del centrodestra, unite alle nuances dipinte di disponibilità da parte di collaboratori anche strettissimi di Silvio, la pancia di quell'elettorato è rimasta affollata di umori contrari al leader pd. Tant'è che alla fine anche il fondatore di Forza Italia si è dovuto schierare apertamente per il No. E con lui Stefano Parisi.Ci sarebbero le misure tipo 80 euro da replicare. Non a caso Renzi ha affollato la legge di Stabilità di interventi a favore di numerose categorie, a partire dai pensionati che invece dagli 80 euro erano rimasti esclusi. Solo che questa strada ha portato il governo italiano in rotta di collisione con la Ue. L'antieuropeismo - che pare essere stato rivalutato anche da Jim Messina, il guru della comunicazione prestato a Renzi da Obama - può essere elettoralmente accattivante. Però anche in questo caso vale il ragionamento fatto per il grillismo dal Palazzo: è ok se lo fa l'opposizione; diventa veleno in vena se lo persegue chi detiene il potere.Insomma la scorciatoia populista è un'arma a doppio taglio. Renzi non ha altra strada che rilanciare sulle sue scelte e convincere gli italiani che lui è meglio di tutti e la sua leadership è priva di alternative. Si tratta di camminare controvento è vero, con sempre più zavorre sulle spalle. Solo che tutte le altre strade sono più infide.