Con l’aria che tira c’è il rischio persino Sergio Mattarella, il presidente anti- interventista, finisca per dover impugnare lo scettro. Il voto in luglio o in settembre è un terno al lotto, le chances che le urne partoriscano una maggioranza sono al lumicino. Dopo un secondo giro a vuoto dire no al presidente sarebbe più o meno impossibile e la bilancia del potere effettivo si inclinerebbe più che mai sul versante del Colle.

Del resto, anche negli ultimi 60 giorni il ' non- interventismo' del Quirinale è stato più apparente che reale. La scelta di negare incarichi o anche solo pre- incarichi politici ha comportato infatti un accentramento totale della regia della crisi sul Colle. Il fatto che ciò si sia verificato, e rischi di verificarsi di nuovo in formato macro, con un presidente preferirebbe limitarsi a ' registrare' indica che prosegue lo slittamento della presidenza della Repubblica verso la postazione di baricentro del sistema politico prosegue. E’ un percorso iniziato da decenni.

Il primo punto di rottura, guardando retrospettivamente, fu la presidenza di Sandro Pertini. Quando fu eletto a grandissima maggioranza, nel 1978, l’ex partigiano socialista aveva già 82 anni. La prima carica dello Stato era a dir poco ammaccata. Il predecessore, Giovanni Leone, era stato costretto alle dimissioni da una campagna infondata ma che aveva smantellato la credibilità del Quirinale.

Pertini gliela restituì ben oltre le più rosee previsioni. Ancora oggi campeggia in testa alle classifiche dei politici più amati nella storia repubblicana. Questione di stile, più che di interventi concreti. Con la sua pipa, l’abitudine a parlare fuori dai denti, l’emotività mai celata, qualche gesto ad alto impatto, come l’abitudine a sdegnare i voli di Stato a favore di quelli comuni, per la prima volta il presidente della Repubblica non appariva omogenea emanazione di un sistema dei partiti già fortemente delegittimato. Al contrario, Pertini si pose come alternativo ai partiti: franco e diretto invece che obliquo e reticente, in- crollabilmente onesto mentre la ' partitocrazia' era già individuata come sentina di vizi. Capace di mantenere una connessione emotiva fortissima con il popolo, al contrario di un Palazzo che dalla vita reale dei governati era già lontano.

Socialista, non privilegiò mai il suo partito di provenienza. Casomai mostrò qualche simpatia in più per il Pci di Berlinguer. Fu il primo ad affidare l’incarico di formare il governo a politici senza la tessera con lo scudo crociato. Nell’immaginario popolare Sandro Pertini si ergeva come l’opposto del sistema dei partiti che pure lo aveva eletto. Non era mai successo. Il presidente era sempre stato una figura grigia, un uomo dei partiti. Quel ruolo doveva restituire al Quirinale Francesco Cossiga, eletto a furor di Parlamento già nella prima votazione, nel 1985. Difficile immaginare una figura più distante da quella del predecessore. Ministro degli Interni nei governi di unità nazionale e nei tremendi 55 giorni del sequestro Moro, poi primo ministro nel 1979, Cossiga era tanto interno al sistema dei partiti quanto Pertini ne era stato sostanzialmente estraneo. Era il ritorno alla norma dopo l’anomalia.

Fu davvero così per cinque anni. Silenzioso, formale, anonimo Cossiga interpretava la sua funzione nell’accezione più notarile. Tutto cambiò letteralmente da un’ora all’altra. Il presidente disse di volersi ' togliere qualche sassolino dalla scarpa'. Cominciò a esternare e non smise più, vibrando mazzate di giorno in giorno più violente contro il sistema dei partiti in generale e contro il suo partito, la Dc, in particolare.

Il sistema era ancora sufficientemente forte per impedire al Picconatore di esercitare troppo potere. Ma le sue esternazioni ebbero una funzione importante nel delegittimare il sistema preparando il terreno per il terremoto in arrivo, provocato da tangentopoli e dal referendum- colpo di grazia del ‘ 93 sulla legge elettorale. L’ultimo biennio della presidenza Cossiga configurò una volta per tutte, in questo sulle orme di Pertini, il Colle come staccato e anzi spesso contrapposto al sistema di potere dei partiti.

Oscar Scalfaro, eletto in fretta e furia nel 1992 subito dopo la strage di Capaci, era l’uomo giusto per rimettere le cose apposto. Chiunque avesse accusato Cossiga di forzare i limiti costituzionali del proprio mandato, a partire da Marco Pannella che dell’elezione di Scalfaro fu il regista, vedeva lui, data la proverbiale fedeltà alla lettera della Carta, l’antidoto alle picconate.

Furono le contingenze a decidere diversamente. Scalfaro si trovò alle prese con un governo totalmente delegittimato da tangentopoli e con una crisi economica gravissima. Prese in mano la situazione. Di fatto il governo che affrontò quella crisi era formato da lui e dal presidente del consiglio in carica, Giuliano Amato. Dopo la modifica della legge elettorale, le cose non migliorarono. Il primo governo Berlusconi iniziò a traballare subito e il presidente entrò in campo a gamba tesa, al puto di incontrare il leader della Lega Bossi al Quirinale per promettergli che, anche se il Carroccio avesse provocato la crisi, l’arbitro avrebbe evitato di sciogliere le camere. Se Pertini e Cossiga sono stati i profeti di una presidenza simile a una monarchia, Scalfaro è stato il primo re- presidente.

Dopo una pausa di sette anni, quelli della presidenza Ciampi, la tendenza è stata portata alle estreme conseguenze da Giorgio Napolitano. Nel suo mandato si sono intrecciati vari elementi: la debolezza congenita del sistema dei partiti della seconda Repubblica, la centralità assunta negli ultimi decenni dal Colle, la tendenza personale interventista ai massimi livelli del sovrano. Scalfaro aveva regnato suo malgrado. Napolitano in piena e lieta consapevolezza.

Al di là delle sue personali propensioni, Mattarella ha ereditato una situazione che vede la delegittimazione della politica più che mai profonda e una centralità del ruolo del Quirinale ormai irreversibile. Finirà per dover giocare la parte del regnante, che gli piaccia o no.