Tina Anselmi, la mia carissima amica Tina, era una delle "due donne" di Aldo Moro, con Maria Eletta Martini: lei veneta, più giovane di cinque anni dell'altra, toscana. Ma cercate, per carità, di non fraintendermi. Erano, semplicemente e innocentemente, solo le due donne, o le più note, della corrente democristiana che Moro formò nell'autunno del 1968, staccandosi dai "dorotei" di Mariano Rumor, Flaminio Piccoli ed Emilio Colombo, che lo avevano detronizzato da Palazzo Chigi dopo che lui aveva guidato per quattro anni i primi governi "organici" di centrosinistra, con la partecipazione diretta cioè dei socialisti di Pietro Nenni. Che di Moro era stato vice presidente del Consiglio mettendolo qualche volta in difficoltà, come quando volle ricevere nel proprio ufficio di governo una delegazione di antifranchisti fra le proteste dell'ambasciata franchista di Spagna.Fu proprio lei, Tina Anselmi, che quell'anno era stata appena eletta per la prima volta alla Camera, a informarmi per prima che Moro, dopo un lungo ritiro a Terracina, dove avevo inutilmente tentato di strappargli qualche parola sui progetti che coltivava, aveva deciso di "mettere su casa nel partito per conto suo".In attesa di trovarle un nome, che il portavoce dell'ex presidente, Corrado Guerzoni, voleva fosse "Il Confronto", titolo di un'agenzia di stampa in allestimento, si era deciso di chiamarla "amici dell'onorevole Moro". E così continuò a chiamarsi sino alla sua silenziosa estinzione, che avvenne con la prima elezione del moroteo Benigno Zaccagini a segretario della Dc, nell'estate del 1975.Moro, credetemi, non era tipo da poter tenere a lungo in piedi, in prima persona, una baracca quale finiva inevitabilmente per essere anche una corrente politica. Ch'egli invece, con la considerazione che aveva di se stesso, riteneva dovesse essere qualcosa di assai diverso: qualcosa, intanto, in cui -mi diceva- non è che si possa entrare e uscire come un turista o un curioso da una chiesa. Dove lui andava solo per pregare. Come aveva deciso di fare anche quella maledetta mattina del 16 marzo 1978, prima di avviarsi verso la Camera, in un percorso purtroppo tanto abitudinario che i brigatisti rossi riuscirono a intercettarlo, sequestrarlo e trucidarne la scorta.Con quella sua voce sempre un po' soffocata, e con l'inconfondibile accento della sua Castelfranco Veneto, Tina mi raccontò della ormai concepita corrente morotea, nel 1968, spiegandomi che non si poteva lasciare mano libera ai dorotei, perchè avrebbero finito per sfasciare il centrosinistra pur di scavalcare Moro nei rapporti con i socialisti, concedendo loro tutto quello che, spesso in cattiva fede, essi nei cinque anni precedenti gli avevano impedito di dare. E, per giunta, facendo concessioni di sole posizioni di potere, senza guardarsi intorno e vedere ciò che stava muovendosi freneticamente nella società, con le contestazioni giovanili e quant'altro.Tutte novità, quelle, che comportavano una "strategia dell'attenzione", come poi la chiamò Moro parlando davanti al Consiglio Nazionale del partito. E non riferendosi soltanto, come i più avrebbero poi fatto, all'opposizione comunista, magari per inseguirne i voti necessari a scalare il Quirinale alla fine del 1971, quando sarebbe scaduto il mandato presidenziale del socialdemocratico Giuseppe Saragat. Già, perché anche quello fu detto di Moro da parte dei dorotei, che infatti, quando il nodo del Quirinale arrivò al pettine, prima candidarono l'allora presidente del Senato Amintore Fanfani e poi, pur di non mandare avanti l'altro cavallo di razza della Dc, allora ministro degli Esteri, improvvisarono in una notte la candidatura di Giovanni Leone. Che Tina disciplinatamente votò, su ordine tassativo ricevuto per telefono da Moro, pure lei, come capitò a molti altri parlamentari scudocrociati della sua corrente.Fedelissima, diciamo pure devota di Moro, la Tina divenne nel 1976, nel primo dei governi monocolori democristiani sostenuti esternamente dai comunisti per la "solidarietà nazionale" imposta dalla crisi economica e dall'emergenza del terrorismo, il primo ministro donna della Repubblica, destinata al Lavoro e alla Previdenza Sociale. Dopo un anno e mezzo passò al Ministero della Sanità, dove gestì la nascita del servizio sanitario nazionale, sostitutivo del vecchio sistema delle mutue.Non vi sto a descrivere l'angoscia con la quale Tina visse, appena cambiato Ministero, la tragedia del sequestro di Moro e l'ancor più tragico epilogo, dopo 55 giorni di penosa prigionia, in un covo dove gli aguzzini gli avevano fatto credere di tutto, anche che stessero per liberarlo, dopo avere invece deciso di ammazzarlo come un cane nel bagagliaio di una dannatissima macchina rossa. Una volta mi confidò di essere ancora più angosciata di quanto fosse stata, a soli 17anni di età, decidendo di fare la staffetta partigiana nella guerra contro i nazifascisti, nel 1944, dopo avere visto impiccare 31 prigionieri italiani per una delle tante rappresaglie di quei tempi. Nei giorni del sequestro Moro il cuore le batteva ancora più forte di quando in bicicletta superava i posti di blocco dei nazisti.Né vi sto a descrivere la delusione, la rabbia e non so neppure dirvi cos'altro provò quando, nel 1981, tre anni dopo la morte di Moro, diventata presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2 guidata da Licio Gelli, ebbe conferma di ciò che si era già saputo e intuito: che alla testa dei servizi segreti italiani, e di altri importanti uffici dello Stato, all'epoca del sequestro e dell'assassinio del suo amico presidente della Dc c'erano affiliati alla P2. L'Anselmi si rifiutò sempre di considerarli solo degli affaristi e carrieristi, anche a costo di sbattere il telefono in faccia una volta allo scettico, secondo lei, Francesco CossigaTina non rinunciò a questa sua convinzione neppure quando la magistratura ordinaria cominciò a smentirla nei processi nei quali capitava ogni tanto a qualche piduista di incorrere. Non cambiò per questo di una virgola la relazione conclusiva dei lavori della commissione approvata il 3 luglio 1984 ma curiosamente giunta in aula a Montecitorio per il voto finale solo il 6 marzo 1986.Fra le persone che volevano più bene a Tina c'era il presidente prima della Camera e poi della Repubblica Sandro Pertini. Che, finito nel 1985 il suo indimenticabile mandato presidenziale, forse il più popolare fra quelli che hanno segnato la storia della Repubblica Italiana, visse ancora abbastanza, cinque anni, per vedere sorgere e crescere voci e iniziative a favore dell'elezione proprio di Tina a prima presidente donna al Quirinale. Ma l'Anselmi, per quanto si fosse meritata anche la primogenitura di una legge sulle pari opportunità, era persona al tempo stesso troppo semplice, troppo genuina, troppo indipendente, troppo estranea ai giochi e giochetti dei partiti e partitini più o meno personali, sorti sule macerie delle vecchie e storiche formazioni politiche, per potere davvero salire così in alto.E' avvenuto così d'altronde anche per un'altra donna, fortunatamente ancora in vita, tosta com'è a fronteggiare ogni sorta di difficoltà, di cui si è fatto tante volte il nome come possibile e finalmente prima donna al Quirinale. Una donna tanto diversa per formazione culturale e provenienza politica da Tina: la radicale Emma Bonino.Addio, Tina. Te ne sei andata a 89 anni con la tua solita discrezione. E, grazie alla grandissima fede che hai sempre avuto, puoi ben sperare di incontrare lassù il tuo maestro politico, del quale ti brillavano sempre gli occhi parlandone: Aldo Moro.