Il primo atto del governo giallorosso – l’impugnazione della legge regionale del Friuli in materia d’immigrazione – è di fatto e al di là del merito tecnico una sfida aperta al salvinismo. Aggredisce, rovesciandone il vettore, il tema che la Lega di Salvini ha trasformato nella sua bandiera di battaglia e colpisce, inficiandolo, un provvedimento voluto proprio da un governatore del Carroccio.

Come a voler segnare da subito una rottura di paradigma, sottolineare la fine di un ciclo politico, il ritorno a un ordine del discorso che chiuda a ogni tentazione di arroccamento e di xenofobia.

Nella nota del Consiglio dei ministri che accompagna il provvedimento si legge peraltro che ' talune disposizioni in materia di immigrazione appaiono discriminatorie, in contrasto con i principi di cui all'articolo 3 della Costituzione e in violazione della competenza esclusiva statale”. Una glossa che intende colpire anche un’idea estensiva di autonomia regionale, l’altra bandiera leghista.

L’intenzionalità politica di sfidare la Lega e la destra nel suo campo e senza mediazioni schierando il Movimento Cinquestelle nel centrosinistra è evidente - fa parte di una strategia ben coordinata che il nuovo governo intende adottare contro il sovranismo, sottoponendolo a una sorta di processo di tabuizzazione e così sospingendolo su posizioni reattive per marginalizzarlo anche culturalmente dopo averlo messo politicamente all’opposizione.

Una mossa che sembra aver ottenuto subito i suoi effetti.

La reazione leghista è infatti immediata ed è un combinato disposto di frustrazione e di ritrovata vitalità politica. Il governatore friulano Fedriga annuncia ricorso alla Consulta contro l’impugnazione e rivendica la soddisfazione di aver attirato l’attacco dei “traditori” – così chiama i componenti del nuovo governo – mentre Salvini fa sapere che anche i leghisti saranno in piazza davanti a Montecitorio lunedì prossimo, insieme a Fratelli d’Italia, quando la Camera voterà la fiducia al Conte- bis.

Per la piazza di destra quella di lunedì sarà la prova generale per l’autunno caldo che i nazionalpopulisti preparano per il nuovo governo. E sarà per Salvini e Meloni l’occasione di saldare un asse di unità tattica finora mai veramente nato per reciproche diffidenze e gelosie ma oggi indispensabile alla sopravvivenza dell’opzione nazionalpopulista.

Sono segnali chiari in merito al fatto che si stia preparando uno scontro frontale tra governo e opposizione sovranista. Scontro dentro cui entrambi i fronti cercheranno di capitalizzare politicamente la loro propaganda radicalizzando le rispettive aree di consenso.

Un gioco win- win per le strutture politiche che hanno cominciato a disporre le proprie pedine nello scenario di risiko riconfigurato dal nuovo assetto di potere ma che per il paese, per gli interessi concreti di cittadini e comunità, si rivela un gioco a somma distruttiva.

Nessuna propaganda infatti che sia quella dalla faccia feroce del salvinismo o che sia quella irenista del multicuturalismo ideologico della sinistra, ora di nuovo al governo – è in grado di dare una risposta seria al problema dell’immigrazione. Risposta che tenga cioè conto dei fattori che determinano il problema: la quota di integrazione possibile, la realtà delle periferie e del welfare italiani, i margini negoziali con l’Europa su questo tema, la complessa realtà africana e la necessità di una politica estera proiettata in quella dimensione di mondo e nel mediterraneo.

Nell’ottica del nuovo governo e della sua prospettiva di restaurazione democratica rispetto all’estremismo leghista si indovina già ora invece un tasso ideologico, anche se di segno invertito, non inferiore al salvinismo.

Ma come non si governa coi pater nostri – così insegnava Machiavelli – non si risolve la questione politica migratoria con l’utopia dell’accoglienza indiscriminata e l’esorcismo dei buoni sentimenti contro il cattiverio antimmigrazionista.

Perché se per ora il sovranismo populista è stato messo all’angolo in Italia e nel resto d’Europa – e quasi ovunque è in corso quella che abbiamo definito una sorta di “restaurazione democratica” - sarebbe stupido e pericoloso illudersi che la corrente bloccata in un punto non cerchi di sfociare in un altro.

Alla vigilia della formazione del nuovo governo l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti parlando del tema di cui a lungo e con competenza s’è occupato al Viminale, diceva che la risposta nazionalpopulista è sbagliata, ma ancora più sbagliato, per ogni forza democratica, sarebbe sottovalutare “la rabbia e la paura” che covano nella società italiana ed europea e dare loro risposte che prevedono anche una rigorosa disciplina in materia di immigrazione.

Il riferimento di Minniti è naturalmente a quella vasta area del disagio, degli esclusi, degli ultimi per i quali gli immigrati costituiscono non solo il marxiano esercito industriale di riserva ma una concorrenza spietata per gli ultimi scampoli di welfare, di redistribuzione di risorse di assistenza pubblica, di spazio sociale.

L’estrema destra naturalmente non aspetta altro per tornare ad agitare i suoi spettri scommettendo su quello che è evidente a ogni osservatore: ossia che il fiume di lava incandescente del populismo che oggi sembra rifluito in Italia e in Europa ha solo intrapreso un cammino carsico ed è pronto a riesplodere in qualsiasi momento, come un geyser o peggio, come un vulcano.