«È stato un uomo». È toccato all’arcivescovo di Milano Mario Delpini riassumere la vita di Silvio Berlusconi, i cui funerali in piazza Duomo hanno di fatto chiuso un capitolo della storia mediatica, imprenditoriale e politica d’Italia lungo almeno mezzo secolo.

Alle dieci del mattino ci sono già centinaia di sostenitori aggrappati da ore alle transenne che circoscrivono la piazza, contingentata per motivi di sicurezza. Durante le esequie saranno in diecimila, di tutte le età. Ci sono bambini nati quando Berlusconi era già stato quattro volte presidente del Consiglio e novantenni che lo seguono dai tempi della Edilnord. Ci sono centinaia di carabinieri, poliziotti e finanzieri, c’è tutto il governo, ci sono parlamentari, sindaci, presidenti di Regione. Ci sono decine e decine di giornalisti. «Se questi funerali li avesse organizzati lui, non ci avrebbe mai lasciato a scrivere per terra sotto il sole, senza cibo e acqua», dice qualcuno. In effetti.

C’è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, accolto dall’applauso della piazza, e c’è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, alla quale è tributata una vera e propria ovazione. Poco dopo le undici si affaccia Matteo Salvini, che tiene per mano la fidanzata Francesca Verdini, di nero vestita.

Tra i sostenitori s’incontra la qualunque. C’è Gianni, di Erba, che è partito alle sette e mezzo in treno e parla del Cavaliere come di «un visionario». C’è Walter, 55 anni, di Caserta, che è arrivato ventiquattro ore prima in aereo e che definisce Berlusconi «il paladino dell’imprenditoria». E c’è Simone, 19 anni, atterrato da Palermo in nottata e che ammette di non aver dormito. «Sono nato nel 2003, nel pieno del suo governo più lungo e forse è questo che ci unisce», ragiona commosso.

La piazza lo descrive come «umile, buono, generoso con tutti». Qualcuno lo vorrebbe santo, o quantomeno beato. A riportare tutti sulla terra ci pensa una signora milanese che ci presenta in piazza con una maglietta con su scritto «io non sono in lutto» e in mano il libro Io mi chiamo Giovanni. L’ha scritto Luigi Garlando, racconta la vita di Giovanni Falcone. Se alcuni agenti in borghese non s’affrettassero a difenderla, rischierebbe il linciaggio.

A mezzogiorno si palesa Maurizio Gasparri, che ricorda la storica foto di protesta «contro certa magistratura» sulla scalinata della Procura di Milano, e dice di essere pronto a rifarla «anche adesso» perché «basta vedere come è andata a finire con gli scandali del Csm e con il caso Davigo». Arriva Maria Rosaria Rossi, che per anni è stata definita in maniera forse poco elegante “la badante di Berlusconi”, e che ora, esagerando appena, dice che «se lui fosse stato presidente del mondo, forse ci sarebbero stati meno odio, meno invidia e anche meno guerre».

I parlamentari si mischiano alla gente comune. La signora Dolly, di Cinisello Balsamo, s’infervora ricordando le 36 assoluzioni e l’unica condanna, confidando ancora nella Corte europea dei diritti dell’uomo. In piazza qualche tricolore, molte bandiere di Forza Italia, moltissime del Milan.

Arrivano gli ex presidenti del Consiglio Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Mario Monti e Mario Draghi. Giuseppe Conte non c’è. E non c’è nemmeno Romano Prodi, che nelle stesse ore sta piangendo la scomparsa della moglie Flavia Franzoni. Entra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e quello di Azione, Carlo Calenda. Fuori, il coro «chi non salta comunista è». Sacro e profano.

Pochi minuti prima delle quindici le nuvole si diradano, spunta il sole e arriva il feretro con il corpo di Silvio Berlusconi, partito mezz’ora prima da Arcore. L’auto si ferma, gli addetti alle pompe funebri sollevano la bara. Il quattro volte presidente del Consiglio, presidente del Milan, condannato e assolto, fondatore di Finivest, Mediaset e Mondadori, riposa in una cassa di mogano, prodotta, ha puntualizzato l’azienda che l’ha venduta alla famiglia, con lo stesso legno delle chitarre di Jimi Hendrix. Dietro sfilano il fratello Paolo, la “quasi” moglie Marta Fascina (atterrita per l’intera cerimonia), i figli Marina, Piersilvio, Barbara (con gli occhiali da sole), Eleonora (l’unica con il cappello) e Luigi.

Il passo è lento. La seconda Repubblica muore sulle note del silenzio. Lo stesso suonato dalle forze dell’ordine che come da protocollo pongono gli onori militari. Subito dopo ripartono gli applausi della piazza, al grido «c’è solo un presidente».

In Chiesa lo attendono le più alte cariche dello Stato, oltre a Mattarella e Meloni anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, quello della Camera Lorenzo Fontana e quella della Corte costituzionale Silvana Sciarra.

Siedono tutti alla sinistra dell’altare, la famiglia a destra. Marina e Marta una accanto all’altra, Veronica Lario, seconda moglie del Cavaliere, chiude la fila. 

C’è il suo Monza, con Adriano Galliani visibilmente provato, e c’è il Milan, con il capitano degli anni ruggenti, Franco Baresi. Ci sono Gianni Letta e Fedele Confalonieri, Umberto Bossi e Vittorio Sgarbi, Claudio Lotito e Aurelio De Laurentiis, Gerry Scotti e Maria De Filippi. Fuori le corone di fiori di Belen Rodriguez e Lapo Elkann.

Dopo un’ora di cerimonia, il percorso inverso. Il feretro esce tra gli applausi, Marina tiene per mano Marta, inconsolabile. I clic dei fotografi si mischiano alle grida della piazza. Video, foto, bandiere di Forza Italia e del Milan: sembra di essere tornati al 1994, con gli smartphone al posto delle videocamere. «Comprendere il berlusconismo significa in sostanza cercare di salvare la casalinga di Voghera, l’imprenditore liberista, l’anziano lettore de Il Giornale, il commerciante qualunquista e perfino la telespettatrice affezionata a Il bello delle donne dall’enorme condiscenda della contemporaneità», ha scritto Giovanni Orsina nel suo Il berlusconismo nella storia d’Italia. Oggi il popolo berlusconiano è tutto qui, tenuto a fatica dietro le transenne di piazza Duomo, lì dove tutto era partito e dove tutto finisce.

«Il più italiano degli italiani», si legge in un cartello. «Ha goduto delle bellezze della vita», dice monsignor Delpini, e non gli si può dare torto. Amen.