«Domenico.... Domenico… Scusatemi, non mi viene il nome. Fa l'oculista»: la gaffe dell'annunciatrice di Rainews24 è comprensibile e comunque eloquente. Sino all'altroieri nessuno nel mondo politico aveva mai sentito parlare di Domenico Lacerenza, prescelto per contendere a Vito Bardi la presidenza della Lucania. Lui stesso ammette candidamente di «non aver mai fatto politica» e di essere stato «catapultato in questa impresa». Aggiunge di non aver mai scambiato mezza parola con i leader che lo hanno scelto, Elly Schlein e Giuseppe Conte. A indicarlo è stato in effetti Angelo Chiorazzo, il candidato sul quale puntava il Pd per decisione dell’ex ministro Speranza ma bocciato da Conte.

Le doti politiche di Lacerenza e la sua capacità in campagna elettorale verranno presto messe alla prova e al momento nessuno dispone di elementi che autorizzino giudizi di sorta, fatto salvo quello sull'esperienza che per ammissione del diretto interessato è nulla. Le doti in base alle quali gli è piovuta sul capo la candidatura sono altre. La prima è il semaforo verde sia di Chiorazzo che, soprattutto, di Conte. La seconda è il suo non essere stato concordato con Calenda e Renzi, i quali hanno ovviamente preso lo sgarbo malissimo e minacciano ora di confluire su Bardi, che in fondo è un forzista, dunque molto più potabile di un Fratello tricolore o di un leghista. A prendere male, anzi malissimo, la scelta di Elly è anche una parte non indifferente del Pd, che rinfaccia alla segretaria il suo essere «testardamente unitaria» solo a senso unico, cioè quando si tratta di compiacere il M5S. Anche in questo caso sarà solo il responso delle urne a dire se la decisione della segretaria del Pd è stata o no saggia. Di certo i pronostici non sono particolarmente rosei. Gli sconosciuti in politica faticano a farsi spazio e in Basilicata il tempo stringe. In Lucania, terra di Pittella, Azione ha una sua vera base elettorale: lo slittamento a favore di Bardi potrebbe decidere della partita. Senza contare il rischio di dare una spintarella a Calenda verso destra.

La vicenda però dice qualcosa non solo sulla situazione del Pd ma anche sulla realtà della politica italiana oggi. Racconta quanto centrali sia diventata, da ogni punto di vista, la selezione delle candidature. In una certa misura non si tratta di una novità. In tutte le coalizioni e particolarmente in quelle di centrosinistra si ricordano le notti della compilazione delle liste come momenti di tregenda. Quella però era ancora politica classica, con la lotta tra esponenti di spicco e soprattutto tra correnti, dichiarate o di fatto poco importa, per piazzare i propri nomi in Parlamento. E' un po' quello che sta succedendo nel Pd, dove l'opposizione, persa dopo il successo di Elly nelle regionali la possibilità di dare battaglia sul terzo mandato come si preparava a fare, dà ora la scalata alle liste.

La segretaria ha vinto nell'elettorato, conclamato o potenziale. Nel partito erano e sono più forti i suoi oppositori, che hanno sui pacchetti di voti un controllo molto maggiore di quello del cerchio magico schleiniano. Nelle urne, il 9 giugno, si potranno esprimere tre preferenze con alternanza di genere. La minoranza ha pronta una serie di “triplette” sulle qualio convogliare i voti con l'obiettivo di egemonizzare il gruppo a Strasburgo ed è opinione comune che la manovra sia destinata al successo.

Sin qui, nulla di inedito: sono giochi vecchi come la politica. Il caso della Basilicata rientra in tutt'altra categoria. Conte ripete che l'alleanza è possibile solo sulla base di un omogeneo progetto politico. Poi declina l'altisonante e indiscutibile affermazione nella richiesta di decidere lui le candidature. Cosa abbia in mente per la Basilicata l'oculista non lo sa nessuno ma non importa. Quel che conta è la bandierina piazzata dai 5S e subìta dalla leader del Pd. La destra, va detto, ha perso la Sardegna per lo stesso motivo. Nessuno si è peritato di ragionare su quante possibilità avesse un sindaco impopolare quant'altri mai proprio nella sua città. Del resto le cose non stavano messe diversamente col candidato su cui puntava la Lega, il presidente uscente Solinas, anche lui tutt'altro che popolare. La sola bussola però è stata la bandiera che quei due candidati permettevano ai leader di issare.

Proprio la Sardegna, però, ha messo in chiaro una volta per tutte quanto sia determinante selezionare il candidato giusto. Senza la popolarità personata di Alessandra Todde il Campo, invece di vincere si tretta misura, sarebbe stato schiantato con largo margine. Sembra un segnale opposto a quello della Basilicata ma in un certo senso è invece identico: in entrambi i casi emerge la centralità crescente dei candidati, sia come acchiappavoti sia perché è sui loro nomi più che su tutto il resto che si articolano i giochi e gli equilibri tra i partiti.