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LaPresse
Ci si può consolare ricordando che poteva sempre andare peggio e in effetti si sa che il peggio non è mai morto. Ci si potrà forse consolare dissertando sul fatto che, ove i sì superassero i 12 milioni e 305mila voti presi dalla destra alle politiche sarebbe il segnale che la sinistra ha superato la destra. Per carità di patria ci si augurerebbe che nessuno tentasse di squadernare il cervellotico conteggio ma è un auspicio impossibile è infatti Boccia non esita a dichiarare che «la destra esce perdente», proprio in base al succitato ragionamento.
Ma riconsolazioni a parte la realtà è che il centrosinistra ha preso una durissima mazzata che oltre tutto lede parzialmente anche il risultato ottenuto il giorno prima del voto con la manifestazione per Gaza. Quella manifestazione era stata un successo, nonostante a guardar bene avesse riproposto la difficoltà estrema nel tenere insieme i centristi, pochi ma necessari, e i 5S, molti ma insufficienti. Il vero limite della manifestazione unitaria, almeno per quanto riguarda i tre partiti del centrosinistra, però non era stato questo. Era stato l'aver trovato il denominatore comune, in politica estera che oggi se non è tutto poco ci manca, intorno al tema più facile. Quello che emotivamente sollecita di più l'elettorato reale e potenziale di sinistra. Quello sul quale, se non si guarda ai particolari che invece dovrebbero pesare molto, è più facile mettere tutti d'accordo. Gaza insomma. Se si fosse parlato d'Ucraina o di Nato, di riarmo o di Ue quell'unità si sarebbe sciolta come neve al sole.
La manifestazione era stata convocata per il 7 giugno, alla vigilia dei referendum proprio per tirare la volata, motivare e galvanizzare l'elettorato, limitare l'astensionismo e dimostrare così che il centrosinistra esiste, è unito ed è almeno tanto forte quanto la destra nei temi che più da vicino riguardano il governo del Paese: lavoro e immigrazione. La scommessa è stata persa, non rovinosamente ma inequivocabilmente. Caricare di significato politico la prova, trasformarla in referendum sul governo invece che restare strettamente sui temi referendari, è stato un boomerang. Cercare di portare alle urne quell'elettorato operaio che magari vota a destra ma è direttamente coinvolto dalle conseguenze del Jobs Act sarebbe stato più produttivo.
I quattro leader del centrosinistra, a differenza del segretario della Cgil Landini, hanno preferito non farlo per due motivi: la convinzione che chiamare al pronunciamento contro il governo sarebbe stato più produttivo ma anche glissare sulle divisioni interne al Pd, partito che in fondo aveva voluto la legge contro la quale chiamava oggi al referendum.
La premier è stata politicamente molto più astuta. Ha capito che accettare la sfida, esporsi sostenendo l'astensione, avrebbe probabilmente spinto verso le urne alcune decine di migliaia di elettori del campo avverso in più ma, in lauto compenso, avrebbe evitato di piazzare sotto i riflettori il punto più debole del suo governo: l'incapacità di rendere più accettabili per un Paese moderno le condizioni dei lavoratori in termini di salario, sicurezza e diritti. Spostare l'asse dello scontro assecondando l'errore del centrosinistra le ha fatto solo molto gioco.
Tuttavia la premier incapperebbe in un grosso sbaglio se non tenesse conto del messaggio che il referendum invia a lei, al suo governo e alla sua ieri tripudiante maggioranza. Landini, più sobrio e realista dell'intemperante Boccia non ha cantato vittoria pallottoliere alla mano. Ha però confermato che la Cgil «continuerà a opporsi a leggi sbagliate» ripartendo da 14 milioni di elettori. Considerarli come altrettanti voti certi alle prossime politiche, come tenta di fare il Pd, è ridicolo.
Ma fingere che non esistano con tutto il peso politico del caso lo sarebbe altrettanto e sarebbe oltretutto suicida. Con le sue manovre troppo ostentate per sfuggire all'attenzione, le sue divisioni palesi su temi essenziali e la sua riduzione continua della politica a propaganda la leadership dei partiti di centrosinistra non è mai riuscita sinora a impensierire la premier. Giorgia ha i suoi guai e sono grossi ma non derivano neppure in minima misura dall'azione dell'opposizione. Ma la prova di ieri dice al di là di ogni possibile dubbio che la forza per dare scacco all'attuale maggioranza c'è. O ci sarebbe se chi quella forza dovrebbe guidare e indirizzare si decidesse a fare politica invece che vivere di battute e trovate da talk show.