Per quanto Luigi Di Maio si sforzi a smentire quotidianamente le voci su possibili scissioni dal Movimento 5 Stelle, le manovre dei potenziali congiurati proseguono. Il capo politico prova a parare i colpi di chi lo accusa di una gestione autoritaria del partito, provando a coprirsi a destra come a sinistra. Così, dopo aver avviato la svolta storica in Umbria, Di Maio prova consolare i grillini nostalgici di Salvini facendo la voce grossa in merito agli accordi sui migranti siglati a Malta dal nuovo esecutivo.

«Come governo in pochi giorni grazie alla ministro dell’Interno Luciana Lamorgese abbiamo raggiunto un obiettivo: ovvero che chi sbarca in Italia sbarca in Europa», dice il ministro degli Esteri. Tuttavia, chiarisce il numero uno M5S, «la soluzione non è distribuirli in tutti i paesi europei perché altrimenti ne partiranno di più». L’unico modo per affrontare il problema di petto è «non farli partire più stabilizzando la Libia», insiste Di Maio, facendo le veci dell’ex alleato di governo.

Difficile immaginare che la precisazione possa essere sufficiente a tenere a bada il fronte dei malpancisti. Anche perché, la pattuglia dei grillini scettici, pronti a fondare un gruppo autonomo, è tutt’altro che omogenea. Anzi, è un agglomerato informe composto da parlamentari più vicini alla destra, ex ministri delusi per il declassamento e persino esponenti fichiani, che in teoria dovrebbero essere entusiasti per l’ingresso nell’era giallo- rossa del Movimento.

Il capo politico osserva i congiurati e prova a prendere le contromisure, piantando ramoscelli d’ulivo. È in quest’ottica che va letta ad esempio la proposta di tregua offerta all’ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, l’idealtipo del grillino duro e puro ( almeno sul fronte NoTav) silurato dalla nuova stagione: un posto da caporguppo al Senato in cambio della pace. Ieri i senatori pentastellati si sono riuniti in assemblea per avviare le procedure di elezione del nuovo presidente del gruppo, dopo la promozione al Mise di Stefano Patuanelli. L’elezione è in programma la prossima settimana, ma la riunione di ieri è servita a raccogliere le candidature, oltre che ad attaccare Di Maio. In ballo solo due nomi: Gialuca Perillie Danilo Toninelli, con quest’ultimo in pole position.

Ma se anche Di Maio riuscisse a sminare la grana degli ex ministri delusi, a cui bisogna aggiungere Barbara Lezzi e Giulia Grillo, la compattezza del gruppo non potrebbe dirsi salva. A inquietare le notti di Di Maio ci pensano infatti i “destri” del partito, capitanati in Parlamento dal senatore Gianluigi Paragone e ispirati dall’eterno numero due Alessandro Di Battista. L’ex direttore della Padania prestato al grillismo ormai non risparmia bordate quotidiane al quartier generale.

E il senatore Michele Giarrusso, a margine dell’assemblea di Palazzo Madama, prima posta un articolo dal contenuto polemico nei confronti del leader e del “cerchio magico”, poi si sfoga coi cronisti. «Se penso che Di Maio abbia troppi poteri? Sì, dovrebbe lasciare tutti gli incarichi. Non vedo quale esperienza possa vantare agli Esteri. Abbiamo perso 6 milioni di voti, siamo in minoranza in Consiglio dei ministri», dice, senza peli sulla lingua, prima di confermare le indiscrezioni su un possibile documento per chiedere a Di Maio di fare un passo indietro: «Ci stiamo lavorando. Noi dobbiamo riportare la democrazia nel Movimento», scandisce Giarrusso.

«Chiediamo a gran voce un intervento di Beppe Grillo». E sull’eventualità di Toninelli capogruppo, il senatore siciliano ironizza: «Toninelli deve raccontarci per filo e per segno come mai abbiamo mandato a quel paese 6 milioni di elettori. Finché non chiarisce su quanto successo nell’ultimo anno e mezzo, non abbiamo bisogno di ulteriori ambiguità».

Ma mentre l’ala destra scalcia, il nuovo corso giallo- rosso ha preso piede anche fuori dal Palazzo. M5S e Pd si presenteranno uniti alle elezioni regionali umbre e potrebbero fare altrettanto in Emilia Romagna prima e in Calabria poi. Sarà proprio questo il banco di prova per Di Maio. Se l’operazione fallisse, da un punto di vista elettorale, il capo politico verrebbe travolto dall’opposzione interna. Ma se in Umbria “il patto civico” funzionasse, le armi dei congiurati rimarrebbero spuntate.