Precisamente la testimonianza della volontà del premier di imbastire con tutte le forze politiche rapporti non conflittuali su un terreno unanimemente riconosciuto come fondamentale. La sicurezza interna; la lotta al fanatismo religioso di matrice jihadista; la protezione dei cittadini di fronte a possibili attentati: sono argomenti talmente delicati che farne oggetto divisione politica è da irresponsabili. Il mantra di palazzo Chigi (una volta si sarebbe detto la linea politica) è così delineato.Poco importa se poi sotto il profilo decisionale e operativo i risultati siano stati impalpabili: non era questo lo scopo della riunione. Quanto piuttosto confermare all’opinione pubblica giustamente angosciata, che nel momento in cui scatta l’emergenza l’unità di intenti è assicurata.Non solo. Perchè poi arriva l’aspetto politicamente più significativo. Chi più e meglio del presidente del Consiglio e del governo legittimamente in carica può garantire quella medesima unità di intenti? Chi può assicurare barra dritta e capacità di reazione se non chi già conosce e gestisce i dossier e fa da regista dell’intelligence nazionale e sovranazionale? Sono domande retoriche, come le risposte. E infatti Renzi non ha l’assillo di porle ai suoi interlocutori: si limita a farle emergere. Pour cause. Grattando la vernice istituzionale, viene infatti fuori il colore vero della posta in palio: se di fronte alla minaccia terroristica la coesione nazionale è la replica più adeguata e rassicurante; se la follia estremista deve essere fronteggiata con polso fermo e chiarezza di intenti, chi può in coscienza porsi l’obiettivo di radere al suolo l’equilibrio politico-governativo che c’è - per esempio facendo vincere il No al referendum - spalancando in tal modo una voragine di incertezza sotto i piedi del Paese ed esponendolo ai tornado della speculazione dei mercati?Dunque di questo si tratta. Tramontata la personalizzazione perchè foriera di boomerang autolesionistici (la Brexit non insegna nulla?); scartato almeno per ora il ripiegamento sul merito del quesito referendario in quanto giustamente considerato troppo poco coinvolgente, a Renzi non resta che un’arma, tutt’altro che trascurabile: far emergere sempre più la necessità che a guidare la barca italiana ci sia un Timoniere saldo e indiscusso; un Commander in chief riconosciuto e apprezzato, capace di esprimere una leadership autorevole e significativa. E che puntare a sbarazzarsene per un ghiribizzo anti-establishment - qualunque cosa questa espressione significhi - rischia di far pagare all’Italia un prezzo altissimo.Naturalmente per raggiungere un simile status occorre smussare gli angoli polemici e le ruvidezze anche comportamentali. Diventa conveniente enfatizzare gli elementi che uniscono piuttosto che arroventare quelli che dividono, infiammandoli ogni giorno nella fucina dello scontro mediatico con gli avversari. Risulta appropriato smettere in panni dell’uomo solo al comando e indossare piuttosto quelli del leader dialogante e accogliente; che non considera il Parlamento semplicemente la cassa di risonanza delle sue decisioni con voti di fiducia a raffica bensì un interlocutore necessario per il corretto e democratico funzionamento del sistema.Bene. Acquisito che si tratta dell’atteggiamento più utile, il più idoneo a smussare le unghie degli avversari, la domanda è: ce la farà il premier a restare in quest’alveo, senza sconfinamenti e impennate che tanto gli piacciono e lo caratterizzano agli occhi degli elettori?L’interrogativo è legittimo. Ma anche mal posto. Nel senso che Renzi in realtà non ha scelta. Andare avanti con indosso l’armatura del guerriero pronto a scontrarsi con chiunque gli si pari dinanzi non solo è insensato: è dannoso, e i sondaggi sono lì a dimostrarlo. Giocare la carta del populismo targato palazzo Chigi non è sbagliato: è masochistico perchè se gli vellichi la pancia gli elettori finiscono per privilegiare chi quella pratica la fa di mestiere e con toni assai più stentorei: i Cinquestelle. O chi non perdona di aver scalato i gradini del potere senza una adeguata investitura nonché riconoscimento elettorale: il centro-destra.A ben vedere, anche la sbilenca trattativa su un possibile superamento dell’Italicum risente della stessa impostazione. Il laissez-faire renziano su un possibile accordo da ricercare a livello parlamentare serve a disinnescare quella che allo stato risulta la mina più pericolosa per il referendum. Con il vantaggio che si tratta di una impostazione inoppugnabile sotto il profilo istituzionale; che non interferisce con la materia referendaria e che soprattutto lascia scorazzare sinistra dem, centristi e quant’altro mentre il tempo passa. Il capo del governo, infatti, è ben consapevole che l’Italicum rappresenta il terreno più insidioso di tutti. Se infatti il magmatico insieme di spezzoni politici che sta provando a confrontarsi dovesse inopinatamente trovare una quadra, la maggioranza che si verrebbe così a realizzare risulterebbe alternativa a quella esistente. Tale cioè da figurare come possibile sostituto dell’equilibrio attuale, vanificando in radice l’assunto strategico che muove Renzi. Se infatti l’obiettivo di palazzo Chigi è dimostrare che scardinare la maggioranza bocciando il referendum espone il Paese a rischio avventurismo, nel momento in cui se ne coagula un’altra sul fronte più delicato e impegnativo - il meccanismo elettorale - quella minaccia perde di consistenza. Uno scenario che per il presidente del Consiglio è veleno allo stato puro.