Alla fine il governo dovrà chiedere alla Ue di ricontrattare il deficit di quest'anno, attualmente fissato al 3,7 per cento ma del tutto insufficiente dopo la frenata della crescita in Europa e in Italia. Tra venerdì e sabato, a Santiago di Compostela, si svolgerà il vertice informale Ecofin e all'odg ci sarà la riforma del Patto di Stabilità. L'Italia chiederà di non resuscitare il vecchio Patto, ove non si trovasse l'intesa su quello nuovo, prorogando la sospensione e in ogni caso insisterà per lo scorporo dal deficit degli investimenti strategici. Si sentirà chiedere di decidersi una volta per tutte a ratificare la riforma del Mes: passo doloroso. Nelle prossime settimane la Commissione, e poi il Consiglio, dovranno valutare le richieste di revisione del Pnrr avanzate da Roma: sono corpose, se non proprio una riscrittura radicale, qualcosa di molto vicino.

Che tutti questi nodi arrivassero al pettine in autunno era noto e previsto. Alcune previsioni erano più rosee, in particolare quelle sulla crescita. La situazione è certamente un po' peggiore di quanto non pensassero Giorgia Meloni e il ministro Giorgetti ma la situazione sarebbe stata comunque difficile. Il cambiamento sostanziale, dal punto di vista del governo di Roma, non riguarda l'economia ma la politica. La strategia della premier era tutta impostata in vista di un orizzonte preciso: il cambio di maggioranza a Strasburgo, la nascita di una nuova alleanza tra Popolari, Conservatori e Liberali. Orizzonte politico con ricadute immediate sulle trattative economiche: se si fossero svolte, come sembrava certo sino a un paio di mesi fa, con quella prospettiva, l'Italia si sarebbe trovata alle prese con un'Europa molto più malleabile. A gestire il nuovo patto sarebbe stata una Commissione con all'interno, in postazione decisiva, i Conservatori e tutto lascia pensare che dopo la riforma la discrezionalità della Commissione sarà comunque molto accresciuta. In ballo, insomma, non c'era solo una diversa idea di Europa, quella delle nazioni invece che federalista. C'erano anche decisioni più concrete e immediate, per l'Italia di fondamentale importanza.

Quella prospettiva sembra essere svanita. Il presidente dei Popolari Weber, cioè la principale sponda della premier italiana, ha ingranato la retromarcia: impensabile una maggioranza senza i socialisti. La presidente del Parlamento Metsola, sulla cui nomina Giorgia Meloni aveva svolto un ruolo determinante, ha voltato le spalle all'amica italiana: «Tra Popolari e Conservatori ci sono differenze distintive, che resteranno». Le ragioni del voltafaccia sono diverse ma di certo è stata essenziale la sconfitta dell'asse Ppe- Conservatori in Spagna, uno scacco del tutto imprevisto che ha cambiato tutto. Ma questo in fondo è secondario: importante è solo il fatto che i Popolari abbiano deciso di battere tutt'altra strada e che la repentina sterzata crei alla premier italiana una quantità di grossi problemi.

Non che la nuova strategia del Ppe la escluda a priori, anzi. Il progetto del Ppe non è la conferma della maggioranza Ursula ma il suo allargamento ai Conservatori, con nel ghetto dei “sovranisti e populisti” solo il gruppo di Salvini, Le Pen e AfD, Identità e democrazia. Ma anche se Giorgia Meloni accettasse di fare la stessa parte di Giuseppe Conte nel 2019, quando l'allora premier portò i 5S a votare per Ursula von der Leyen, il suo peso specifico e la sua forza contrattuale sarebbero fortemente ridimensionati rispetto al miraggio del cambio di maggioranza e di una Commissione con i Conservatori in posizione eminente. Il passaggio di campo, inoltre sarebbe per la leader italiana molto più che imbarazzante. Si troverebbe in maggioranza, oltretutto in posizione quasi ancillare, con i socialisti, esposta agli attacchi di Identità, dunque della Lega in Italia, con sulle spalle la responsabilità delle scelte di una Commissione nella quale il suo potere sarebbe estremamente ridotto. Lo stesso gruppo dei Conservatori non reggerebbe probabilmente al colpo, perché difficilmente Vox accetterebbe di accompagnarsi al partito di Pedro Sanchez.

Ma il gran rifiuto, per una leader che è anche premier, sarebbe a sua volta costoso e rischioso: l'Italia avrebbe pochissima voce in capitolo in scelte dalle quali dipende la sua sorte e in buona misura anche quella del governo in carica. Insomma, i nemici hanno fatto poco danno a Giorgia Meloni nel suo primo anno di governo. Ma gli amici del Ppe hanno compensato mettendola nei guai sino al collo.