Le nuove nomine del consiglio di amministrazione della Rai sono state la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso. E i rivoli di insofferenza alla linea ufficiale del Partito democratico minacciano di trasformarsi in un fiume in piena dopo l'estate.Il primo strappo si è consumato ieri, dopo che il cda Rai ha approvato - in una seduta di passione durata cinque ore - i nomi dei nuovi direttori del Tg2 (Ida Colucci al posto di Marcello Masi), del Tg3 (Luca Mazzà al posto di Bianca Berlinguer), del Giornale radio (Andrea Montanari) e di Rai Parlamento (Nicoletta Manzione). Le nomine sono passate a maggioranza, con 6 voti a 3 e parecchie critiche sui tempi e modi delle scelte del dg Antonio Campo Dall'Orto.Durante la riunione in Vigilanza Rai di mercoledì sera, i senatori della minoranza Pd avevano provato - senza successo - a bloccare le nomine ma si erano scontrati contro l'alt del presidente della commissione, Roberto Fico: «La Vigilanza non ha titolo per farlo». Subito dopo la decisione del cda, la fiammata dei dem: Miguel Gotor e Federico Fornaro, due dei tre consiglieri democratici in Vigilanza, si dimettono e aprono la polemica: «Si tratta di decisioni assunte in assenza di un nuovo progetto per l'azienda e che risponde solo a logiche di occupazione governativa del servizio pubblico, in contrasto con il principio costituzionale del pluralismo culturale e politico». Un'accusa - nemmeno tanto velata - di lottizzazione renziana dei vertici giornalistici dell'informazione pubblica. I due dimissionari muovono critiche circostanziate, parlando di nomine «non trasparenti, che penalizzano competenze e professionalità interne, come ad esempio nel caso di una giornalista autorevole quale Bianca Berlinguer, senza che emergano un profilo e una visione di un moderno servizio pubblico». La minoranza democratica, dunque, si sfila ufficialmente dalla pax renziana alla Rai, in dissenso con l'accelerata sui nuovi nomi voluta dal cda, con Campo Dall'Orto che aveva giustificato le scelte a colpi di slide sul nuovo progetto digitale, che mira a sviluppare la Rai sulla rete, con un portale di news. Nei giorni scorsi si erano espressi sulla linea del dissenso anche i big della sinistra dem, con Pierluigi Bersani che aveva bocciato l'operazione, bollandola come «esempio di vecchi vizi» e Gianni Cuperlo, che la definiva laconicamente «una brutta pagina per la politica».Un secondo rivolo di dissenso, forse il più foriero di cattivi presagi per il governo Renzi, si è allargato anche in Parlamento, colpendo la maggioranza proprio sul fronte più delicato della legislatura. Dieci parlamentari del Pd (Luigi Manconi, Walter Tocci, Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiuti, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa e Franco Monaco) hanno rotto gli indugi con un documento in favore del «No» al referendum costituzionale di ottobre, in cui definiscono la riforma Boschi come portatrice di un «bicameralismo confuso» e un «procedimento legislativo farraginoso». Parole che pesano in un infuocato clima agostano tutt'altro che vacanziero e che aprono per la prima volta in modo chiaro un fronte di dissenso interno, anticipato all'ultima direzione Pd da Roberto Speranza ma allora non concretizzato, e ora invece difficilmente ricomponibile. Il documento, pur chiarendo che il no al ddl Boschi non equivale ad un no al governo Renzi, rimarca come la posizione dei parlamentari "ribelli" sia «in dissenso da quella ufficiale del Pd» ma perfettamente legittima in quanto, «a norma di statuto, sui principi e impianto costituzionale non si dà disciplina di partito». Il rischio per Matteo Renzi - che ha appena allargato l'asse del «Sì» con i comitati organizzati dai centristi e dai verdiniani - è che intorno al documento si coaguli il fronte aperto del dissenso dem alla gestione governocentrica del partito. Un fuoco amico che rischia di minare la lunga marcia del governo fino a ottobre.