El Dievel non molla. Resiste. Germano Nicolini, il comandante Diavolo appunto, uno dei protagonisti della Resistenza in Emilia Romagna, in questi mesi è stato tirato in ballo da chi ha cercato di strumentalizzare le sue posizioni sul voto di dopodomani. Lui fieramente ha sempre replicato: «Ho lottato per tutta la mia vita per la libertà e oggi che ho 97 anni compiuti a novembre lo riaffermo con forza».La storia del comandante Diavolo fa parte della nostra storia. Durante la Seconda guerra mondiale Nicolini fu fatto prigioniero a Tivoli dai tedeschi, ma riuscì in maniera rocambolesca a fuggire, come un dievel, e a partecipare alla guerra di Liberazione. Ha guidato nella Bassa reggiana il 3° battaglione della 77ma Brigata "Fratelli Manfredi", composto da 900 partigiani, partecipando a tredici scontri a fuoco e due battaglie campali contro i nazifascisti. Alla fine della guerra, a 27 anni, è eletto sindaco della sua Correggio anche con i voti dei consiglieri di opposizione della Democrazia cristiana. Ma nel 1947 è accusato ingiustamente di aver ucciso sulla porta della canonica don Umberto Pessina, insieme con Antonio Prodi ed Elio Ferretti. Nel 1950 Nicolini viene condannato a ventidue anni di reclusione. A nulla valsero le testimonianze che affermavano che nel momento dell'omicidio di don Pessina el Dievel stava giocando a bocce con amici in un paese nelle vicinanze. Sconta 10 anni di carcere. Nel 1990 l'onorevole Montanari riesce a fare riaprire il processo e grazie alle testimonianze dell'epoca si individuarono in tre persone gli assassini di don Pessina, mentre i reo confessi, Catellani e Righi, erano soltanto in due. Spunta il terzo uomo, William Gaiti, che si accusa di aver fatto parte con gli altri due del commando che aveva ucciso don Pessina. Gaiti, Righi e Catellani nel '93 vengono condannati per l'omicidio del parroco, mentre per Nicolini, Prodi e Ferretti l'8 giugno '94 vengono assolti «per non aver commesso il fatto». Nel marzo 1997 gli è stata conferita la medaglia d'argento al valore militare per la sua attività partigiana. A lui i Modena City Rambles hanno dedicato la canzone Al Dievel, che fu poi modificata, con la voce narrante dello stesso Nicolini. «Pensi un po', nel testo c'era scritto che io non avrei voluto fare la spia. Ma io non sapevo nulla! ». Luciano Ligabue, anche lui di Correggio, gli ha dedicato un testo intitolato Il Diavolo. E chissà se Zucchero quando ha scritto il suo Partigiano Reggiano non abbia pensato pure lui al Dievel. Comandante, allora la sua idea sulla riforma costituzionale è chiara. Lo sto dicendo da mesi, mi sono pentito di aver espresso il mio pensiero, ma non ho cambiato parere. La Costituzione non va toccata nei primi 12 articoli, che rimangono per me il Vangelo. Ma il resto si può riformare, si deve velocizzare. Il mondo è cambiato, esistono oggi problematiche di ordine economico e tecnologico completamente diverso da allora. Tutto è più veloce. Certo bisogna fare in modo che le forze sane del Paese, quelle che producono ricchezza, non legate alla finanza fine a se stessa, che guardano con attenzione alle esigenze sociali e ambientali, si mettano insieme per garantire un futuro migliore alle nuove generazioni. Già nel 1953 Pietro Calamandrei scrive che la Costituzione nasce su quei valori che sono richiamati nei primi dodici punti, non è un fatto astratto solo idealistico, ma risente del momento storico. Anche allora, probabilmente, c'era la consapevolezza che sarebbe bastata una sola Camera, ma il timore da parte del Pci e della Dc che una delle due forze potesse sovrastare l'altra determinò il sistema bicamerale. Lei che ha combattuto per la libertà del nostro Paese e per l'unità come si sente oggi in un'Italia divisa su questa riforma referendaria? Questa è la mia preoccupazione maggiore e lo è sempre stata. Adesso si è accentuata, perché credo che ci sia un fenomeno come quello della globalizzazione, che rappresenta il nuovo dell'economia, con degli aspetti positivi dell'apertura dei mercati e della circolazione degli uomini, ma con una eccessivo sfruttamento di risorse e persone per l'interesse di pochi. Mi auguro che le forze giovanili riescano a mettersi d'accordo. In più di un'occasione mi sono permesso di dire ai giovani di guardare avanti, perché la loro patria è l'Europa. Se fossi giovane mi batterei per affermare questi valori. Il referendum ha sollevato polemiche anche all'interno dell'Anpi e lei, in qualche modo, ne è stato coinvolto. Secondo me è stato un errore. Un'associazione ha tutto il diritto di esprimere la propria contrarietà alla modifica della Costituzione, ma non può impedire che i suoi iscritti abbiano un'idea diversa. Ogni organizzazione ha il diritto di un pronunciamento collettivo. Lo stesso vale per i partiti. Qual è l'ultimo partito al quale è stato iscritto. Non sono renziano e non ho la tessera del Pd. Sono stato iscritto a un unico partito: il Pci. Dal 1971 non ho più rinnovato la tessera, perché c'è stato un comportamento delle classi dirigenti nazionali e regionali, non di quelle comunali, ostile alla revisione del processo che mi ha visto protagonista per cinquant'anni. Quando un uomo onesto come l'onorevole Otello Montanari (presidente dell'Istituto Alcide Cervi e dirigente dell'Anpi, ndr) il 29 agosto 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, sul Resto del Carlino pubblicò il famoso articolo "Chi sa parli", dove invitava a far luce sui delitti compiuti nel Dopoguerra, molte cose sono cambiate. I giornalisti si sono interessati alla mia storia, pubblicata anche nel mio libro Nessuno vuole la verità, e finalmente siamo arrivati alla fine. Ma se non fossi stato decorato con la Medaglia d'argento avrei rischiato l'ergastolo. Anche per questa vicenda ho combattuto, mi sono battuto e, dopo aver fatto la Resistenza contro i nazifascisti, ne ho fatta un'altra, durata cinquant'anni, per far emergere la mia innocenza. Il Pci non voleva la verità, anche la Chiesa era sulla stessa posizione. Era necessaria una grande forza morale per resistere contro queste forze, schierate per evidenti motivi politici contro un giovanissimo sindaco. C'è, ovviamente, differenza con la situazione che avete affrontato durante la Resistenza. Non sono abituato a fare della retorica, ma va ricordato che allora siamo partiti da posizioni politicamente immature, giustificate da venti anni di fascismo e molti giovani non sapevano neanche che cosa fosse la democrazia. Vivevamo in un Paese disastrato dalla guerra, con delle responsabilità individuabili in chi aveva governato. I motivi dell'adesione alla causa partigiana erano di varia natura. Io, per esempio, ero uno studente universitario di estrazione contadina e cattolica con un fortissimo sentimento antitedesco e con la consapevolezza del Paese distrutto. Tra noi partigiani c'erano varie anime e divisioni, avevamo la forte esigenza di unità nell'obiettivo fondamentale della cacciata dei tedeschi. Avevamo delle aspirazioni che sono state perfettamente raccolte e sintetizzate nella Carta costituzionale da un ceto intellettuale molto preparato. E oggi? La preoccupazione dovrebbe essere quella di cercare di ricucire, di unire le forze del lavoro, quelle produttive, i ceti medi, affinché tentino di formare un governo di unità nazionale. Con gli estremismi che sono in campo com'è possibile trovare un'unità di intenti? Parliamo di gruppi che si oppongono all'idea di un'Europa unita, che sono contrari all'accoglienza dei migranti. Nel 2012 con lo storico Massimo Storchi ha pubblicato il libro intervista Noi sognavamo un mondo diverso. Il sogno si è realizzato? Purtroppo ancora no. Nella Resistenza siamo partiti, come le dicevo prima, politicamente immaturi, ma piano piano ci siamo formati delle convinzioni più chiare. Ma certo noi non avevamo a disposizione tutte le informazioni di cui dispongono i giovani di oggi.