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Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti insieme al Generale Andrea De Gennaro
Sarà la volta buona? L'eterna saga del Mes, o più precisamente della sua riforma, si concluderà alla fine di giugno, col voto della Camera sui due ddl, uno del Pd, l'altro di Iv, a favore della ratifica della riforma? Non è detto ma la calendarizzazione, dopo una serie di rinvii, dovrebbe rendere impossibile per governo e maggioranza insistere nel gioco a rimpiattino con la Ue. Il governo dovrebbe esprimersi, anche se non è affatto escluso che faccia finta di niente rimettendo la palla avvelenata, almeno formalmente, nelle mani di Parlamento. La maggioranza però non potrà evitare la scelta: dovrà votare a favore o contro la ratifica. La decisione di calendarizzare è stata assunta dalla conferenza dei capigruppo della Camera su insistenza del Pd e del Terzo Polo, ma senza dubbio hanno pesato anche le pressioni di una Ue che si muove con estrema diplomazia, evita toni ultimativi, si sprofonda in riconoscimenti sul fatto che la decisione finale spetta al Parlamento e al governo italiani. Però, dietro la cortesia di facciata, vuole a tutti i costi la ratifica. L'Italia, va ricordato, è il solo Paese a non aver ancora approvato la riforma, che tuttavia chiede l'unanimità. Il mancato semaforo verde di Roma basta a bloccare tutti.
La riforma del Mes, il fondo salva- Stati universalmente temuto dopo essere stato messo alla prova con risultati disastrosi in Grecia, è una patata bollente che governi e Parlamenti si rimpallano da anni. Il Conte 1, quello sostenuto da Lega e M5S, era drasticamente contrario. Il Conte 2, quello appoggiato da Pd e M5S, nel gennaio 2021 aveva dato il suo assenso al testo definitivo concordato dai ministri delle Finanze nel dicembre 2019. Il successivo governo Draghi aveva annunciato nel marzo scorso una proposta di legge per la ratifica, che però non è arrivata mai a vedere la luce. Nel novembre scorso il Parlamento ha impegnato il governo Meloni a non firmare la ratifica. Decisione però passibile di ripensamenti. Pochi giorni fa il ministro dell'Economia Giorgetti, dal Festival dell'Economia di Trento, ha sottolineato che «il Parlamento ha dato mandato al governo di non firmare la ratifica. Però potrebbe cambiare idea». Di sicuro le camere italiane cambierebbero idea se venissero accolte le proposte dell'Italia, quelle di affrontare la questione nel quadro di una revisione generale della governance europea e soprattutto nel quadro di una reale unione bancaria, ipotesi, soprattutto la seconda, bocciate senza appello dai Paese del Nord, con la Germania in testa, che della solidità delle banche italiane proprio non si fidano.
Senza alcuna accoglienza positiva delle sue richieste, il governo e a maggior ragione la maggioranza sono ancora orientati a bocciare la ratifica. Passo però che non si può muovere a cuor leggero perché l'affronto non faciliterebbe certo le cose sugli altri tavoli di trattativa con Bruxelles: quello della rimodulazione del Pnrr, quello della definizione delle nuove regole del patto di stabilità, quello della flessibilità per il debito che l'Italia dovrà contrarre per ricostruire la Romagna. Giorgetti assicura di non voler usare la ratifica come strumento di pressione su Bruxelles, «noi non ricattiamo nessuno». Ma per il governo è in compenso impossibile ignorare i molti fronti sui quali l'Italia è esposta e necessita dei buoni uffici della commissione.
I nodi della contesa sono molto tecnici e dunque di difficile comprensione. Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) ha sostituito nel 2012 il Fesf (Fondo europeo di stabilità finanziaria), istituito due anni prima per garantire i prestiti agli Stati in difficoltà ma con carattere temporaneo a differenza del Mes che è invece permanente e dispone, almeno virtualmente, di un fondo di 700 miliardi, garantito dai versamenti degli Stati europei. L'Italia è il terzo contributore dopo Germania e Francia.
La riforma modifica in vari modi le dinamiche del Mes, che dovrebbe esercitare, ad esempio la funzione di Backstop nelle crisi bancarie: cioè entrerà in azione, con prestiti fino a 55 mld, ove il Frs (Fondo di risoluzione unico) incaricato di affrontare le crisi bancarie, esaurirà le risorse a disposizione. Il Mes sostituirà di fatto la Commissione nel decidere le condizionalità richieste per erogare i prestiti e la riforma, con la modificherà delle Cac (Clausole di azione collettiva), renderà più facile ai detentori del debito pubblico di un Paese imporre la ristrutturazione del debito prima di erogare il prestito. Secondo i critici, le nuove regole renderebbero obbligatoria, di fatto anche se non formalmente, la ristrutturazione preliminare del debito come condizione per l'accesso ai prestiti del Mes. La sostituzione di un'istituzione tecnica, appunto il Mes, al posto di quella politica, la Commissione, toglierebbe inoltre agli Stati buona parte della loro possibilità di trattare in caso di richiesta di prestito.
Le criticità reali nella riforma ci sono e non basta a risolverle l'affermazione per cui «ratificare la riforma del Mes non implica la necessità di utilizzarlo», la minaccia essendo infatti destinata a scattare proprio ove si rendesse necessaria la richiesta d'aiuto. Ma ancor più della realtà pesa il valore simbolico che la questione del Mes ha assunto, il suo carattere di bandiera al quale la destra non vuole e forse non può rinunciare. La situazione quindi somiglia molto a un labirinto e Giorgetti dovrà trovare il modo di venirne fuori in poche settimane.