«Alle 15,45 di quel 21 febbraio del 2014 mi telefona l’onorevole Graziano Del Rio e mi dice le passo il Presidente». Il Presidente, nel racconto fatto in seguito, e in diverse interviste, da Nicola Gratteri, non era Giorgio Napolitano, ancora rinchiuso dietro quella porta che Matteo Renzi stava per varcare. Ma proprio colui che aveva appena silurato Enrico Letta, e che era stato incaricato di formare il nuovo governo e convocato al Quirinale con la lista dei ministri. Ma c’era una macchia, su quel foglietto, nel punto in cui c’era scritto, a mano, ministro di giustizia Nicola Gratteri, “magistrato in servizio”. Così era entrato, quel giorno e in quel momento al cospetto del Capo dello Stato e capo del Csm, quindi di tutti i magistrati italiani, il nome del dottor Gratteri Nicola, calabrese di Gerace, come futuro guardasigilli. Un unico dubbio solcò la fronte di Matteo Renzi, quando alle 15,45 si fece passare al telefono il suo “protetto”, mentre già varcava la porta di vetro: «E’ sicuro, dottore? Non cambierà idea?». E l’altro, sempre secondo il suo racconto successivo a reti unificate: «Solo se andrà in porto il nostro accordo, cioè se avrò carta bianca per fare la rivoluzione della giustizia».

Dietro la porta di vetro Giorgio Napolitano era più che perplesso. Dai tempi di Mani Pulite non era più un ammiratore incondizionato delle toghe. Indimenticabile il giorno in cui, quando era Presidente della Camera, aveva letto con la voce rotta di pianto la lettera che aveva inviato al Parlamento e all’Italia intera il deputato socialista Sergio Moroni prima di togliersi la vita, lui uomo integerrimo riconosciuto da tutti, per un paio di informazioni di garanzia della procura di Milano. Molto recente era anche stata, nel 2012, la morte con un infarto da crepacuore del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, calunniato dalla solita vergogna campagna di certa stampa, perché intercettato mentre parlava con l’ex ministro Nicola Mancino nel processo-farsa “Trattativa Stato-Mafia”. Mancino sarà assolto anni dopo, e Napolitano quel giorno dava l’annuncio della perdita del suo collaboratore “con animo sconvolto”, e insieme esprimeva “rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto”.

Poteva quel Giorgio Napolitano dei casi Moroni e Mancino-D’Ambrosio mostrarsi entusiasta di far indossare i panni di guardasigilli a un magistrato “in servizio” il quale, oltre a tutto, era già abbastanza conosciuto per la richiesta di superare l’affollamento delle carceri costruendone di nuove, e i sospetti di incostituzionalità dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario rendendolo ancora più rigido e impermeabile? Non poteva, e molte perplessità lo agitavano, dopo aver saputo che quel calabrese, che pareva più poliziotto che magistrato, aveva chiesto al presidente del consiglio incaricato di volere “carta bianca”. Se a questo si aggiunge -e qui dobbiamo chiamare a testimoniare due libri, “Il Sistema” di Palamara e Sallusti e “Il mostro” di Matteo Renzi- che a quanto pare il Presidente Napolitano quel giorno era anche assediato da telefonate di procuratori e sindacalisti dell’Anm, si capisce perché le cose siano andate in quel modo e Nicola Gratteri da Gerace, oggi procuratore di Napoli, sia entrato ministro alle 15,45 e sia uscito ancora toga due ore dopo. “Stanno litigando per me” , dice lui quando si vede che dopo due ore da quella vetrata del Quirinale non uscirà ancora nessuno. Presunzione, ma azzeccata.

«Si muovono pezzi da novanta del Sistema», scrive Palamara. E Renzi farà il nome del procuratore Giuseppe Pignatone. Non per nobili motivi, si agita il partito dei procuratori, ma semplicemente per esser stato escluso dalla “trattativa” da un futuro presidente del consiglio, che oserà poi persino tagliare le ferie ai magistrati, dicendo “brr, che paura”. E che pagherà per lo sgarro, oh si, che pagherà. Ma Nicola Gratteri non è così diverso dai suoi colleghi che allora, anche per invidia, gli impedirono di diventare ministro. Basterebbe leggere l’intervista che ha rilasciato al suo quotidiano di riferimento, dopo l’elezione alla procura di Napoli, in cui virtuosamente afferma che «se non ci sono le condizioni per arrestare e processare, sono il primo a fermarmi» (citofonare Pittelli e cassazione), e che per lui “parlano le sentenze”. Ma quali? Nei processi collaterali al principale “Rinascita Scott”, dopo i blitz e le retate, non ha mai portato a casa neppure il 50% di condanne. Ma c’è una sua frase che ci sarebbe piaciuto mostrare al presidente Napolitano, per dirgli “grazie” di quella mancata nomina. Il passaggio in cui il magistrato parla con sprezzo della riforma della “cosiddetta presunzione di innocenza”. Cosiddetta, appunto.