Sulla carta i risultati saranno ancora in forse per due settimane. Politicamente la partita era chiusa già dal primo exit poll: non ci sono ancora tutti i vincitori, c'è lo sconfitto. E' il centrodestra. E c'è chi di una sconfitta di simile portata deve iniziare a preoccuparsi: il governo Draghi. La rotta della destra non ha bisogno di essere illustrata. Sconfitta in tutte le città, con risultati peggiori delle più cupe previsioni ovunque: a Milano, dove non arriva al ballottaggio, a Roma, dove nonostante un fronte avversario diviso in tre l'anonimo scelto non ci sa perché come candidato nella prima città d'Italia, Enrico Michetti, non riesce neppure a staccare l'inseguitore più vicino, a Torino, dove il punto della bandiera si allontana nelle nebbie, a Bologna, dove non c'era partita, certo, ma converebbe ricordare che meno di due anni fa la conquista dell'Emilia rossa sembrava per Salvini a portata di mano. Resta la Calabria, ma anche lì, senza la divisione del fronte avversario, sarebbe finita come nelle metropoli. Una sconfitta cocente comunque ma molto più grave essendo l'esito di una partita che la destra, politicamente se non comune per comune, avrebbe potuto vincere facilmente se non avesse preferito il vicolo cieco di un suicidio commesso però per inettitudine e incapacità non come insana scelta. Anche le origini del disastro sono chiare: l'aver scelto di adoperare la prova solo come sfida interna, esaltando la competizione interna a scapito della capacità di dar vita a una vera e credibile coalizione, le modalità sgangherate con cui Lega e FdI hanno affrontato un passaggio che sarebbe stato difficile per tutti, la divisione nei confronti del governo Draghi. Oscure sono invece le conseguenze del cataclisma, l'impatto che la sconfitta secca del centrodestra avrà sulla stabilità del governo. E' vero che nessuna delle due anime della destra, quella governista e quella sovranista, esce vincente dalla prova. Ma è anche vero che in tutta evidenza la partecipazione al governo della Lega e l'autoesclusione di FdI ha avuto esiti disastrosi. Un posizionamento divaricato del genere è sempre delicatissimo e più che mai nel cuore di un passaggio caotico come la crisi complessiva in parte determinata e in parte maggiore spinta al punto di non ritorno dal Covid. Senza un accordo di ferro tra i due partiti più forti, e anzi in presenza di una competizione spesso forsennata e accecante, la rendita di posizione garantita all'alleata nemica Meloni dal monopolio dell'opposizione ha spinto Salvini a ingaggiare battaglie perse in partenza sul fronte più inopportuno e che, senza dover fare i conti con la FdI rampante, lo stesso Capitano avrebbe probabilmente evitato: quello della vaccinazione. Cioè sull'unico fronte sul quale Draghi non poteva concedergli niente. La Lega è riuscita così a scontentare tutti, sia la base sovranista che la componente d'ordine e governista, senza che peraltro questo sia andato a vantaggio politico della competitor. Meloni vede sì impennarsi i consensi rispetto alle politiche del 2018 ma il prezzo è una caratterizzazione rozza, antisistema, movimentista nel senso peggiore del termine del suo partito: proprio quello che la destra più accorta in Europa cerca di evitare perché, per quanto ricchi possano essere i dividendi elettorali, comporta la chiusura in un ghetto asfittico, la condanna all'irrilevanza politica. Forza Italia avrebbe in questa situazione margini di gioco molto ampi. Se esistesse. Ma Forza Italia, senza Berlusconi o con Berlusconi messo quasi fuori gioco dall'età, non esiste. Ora la destra dovrà per forza scegliere. Se resterà unita, però, non potrà esserlo sulla linea draghiana di Giorgetti e Brunetta. Dovrà spostarsi su posizioni più critiche nei confronti del governo, tanto più che il Pd giocherà ora fino in fondo la carta del partito leale a Draghi. Se invece si dividerà in base a un accordo sul passaggio al proporzionale, la destabilizzazione potrebbe essere anche maggiore: in quel caso Lega e FdI rimetterebbero probabilmente in scena la stessa sfida dell'elettorato più radicale già vista negli ultimi mesi. Però portata alle estreme conseguenze. Solo una divisione della stessa Lega, oppure una chiara scelta di sostegno a Draghi da parte di Salvini, avrebbero invece un effetto stabilizzante sul quadro di governo. Ma è una strada che deve fare i conti con un ostacolo difficilmente superabile: il carattere e la propensione naturale alla politica tribunizia dello stesso Salvini.