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La premier Giorgia Meloni
Mercoledì prossimo, quando il Parlamento discuterà le sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo dei due giorni seguenti, Giorgia Meloni ribadirà la sua linea sulla guerra in Ucraina, la più radicale e intransigente che ci sia oggi nell'Unione europea occidentale. Sarà un posizione meno forte di quel che sarebbe stata una settimana prima e non è escluso che qualche crepa trapeli nella sua maggioranza. Il segnale degli ancora misteriosi eventi di sabato scorso infatti è palese: il rischio che si verifichi lo scenario che tutti gli analisti, inclusi quelli del Pentagono, temono di più, cioè una implosione della Federazione russa con esiti imprevedibili e soprattutto ingovernabili. La linea di palazzo Chigi non sarà modificata di una virgola, però sarà inevitabilmente più debole ed esposta a distinguo se non a veri e propri dissensi.
La giornata di sabato è da cerchiarsi in nero, per la premier, anche per un altro e solo apparentemente secondario motivo: la telefonata di Joe Biden non è arrivata. Il segretario di Stato Blinken ha parlato con il ministro degli Esteri Antonio Tajani ma non è la stessa cosa, soprattutto per quanto riguarda i codici simbolici della diplomazia internazionale. Il presidente degli Usa ha chiamato il premier inglese Sunak e, all'interno dell'Unione europea, solo il cancelliere tedesco Scholz e il presidente francese Macron. Certo, Germania e Francia sono da sempre la locomotiva della Ue ma l'Italia, come terzo paese in ordine di importanza, aveva tutto il diritto di attendersi una consultazione, soprattutto tenendo conto del fatto che nessun capo di governo della Ue, almeno in occidente, è schierato sulla linea della Casa Bianca quanto Giorgia Meloni. La mancata telefonata derubrica l'Italia a Paese di seconda fila rispetto alle potenze maggiori e rende claudicante quel sostegno di Washington che sin qui è stato uno dei principali punti di forza dell'Italia a livello europeo.
La brutta notizia, anzi la doppia brutta notizia, arriva alla fine di una settimana nerissima per la premier e tra le tante voci accompagnate dal segno meno nessuna irrita la presidente più del caso Santanchè. La ministra ha già fatto sapere di non aver alcuna intenzione di dimettersi. Non è ancora neppure indagata: da quel punto di vista chiedere le dimissioni come fa ad altissima voce l'opposizione è certamente una forzatura o almeno un precorrere di molto i tempi. Ma dal punto di vista politico le cose stanno diversamente. Dalle “spiegazioni” in aula di Daniela Santanchè potrebbe emergere un'immagine della classe dirigente di FdI devastante, del tutto opposta a quella che la leader del partito ha cercato di imporre, con successo, in questi anni. Anche la disponibilità a riferire in aula non è affatto stata così immediata e netta come Meloni avrebbe voluto, a maggior ragione trattandosi di una esponente a lei abbastanza vicina. Invece la ministra del Turismo è sembrata e ancora sembra a dir poco recalcitrante, tanto che Meloni ha dovuto esporsi personalmente, di fatto con una robusta spintarella verso il dibattito al Senato.
Il Mes è forse il guaio più grosso. Ratificare la riforma è un obbligo, non un optional. La cosa è nota e la premier lo sa. Però bisogna trovare il modo per ingranare la retromarcia senza perdere la faccia, senza che ciò suoni come una resa incondizionata e non è affatto facile. Anzi senza un aiutino da parte proprio dell'Europa, cioè senza un segnale che possa essere spacciato come successo di Roma, è proprio impossibile.
La spregiudicatezza di Salvini manda di conseguenza Meloni fuori dai gangheri. Perché, fingendo di voler far quadrato, contro la ratifica rende ancora più difficile il passo indietro camuffato da successo almeno parziale in una trattativa e perché irrita Bruxelles rendendo più difficile l'aiuto necessario. Del resto Salvini sgambetta a tutto campo, come dimostra l'insistenza della Lega nel reclamare la presenza in aula della Santanchè.
Se si tiene conto del fatto che nei prossimi mesi arriveranno al pettine nodi aggrovigliati come la revisione del Pnrr e la riscrittura del patto di stabilità, scogli già impervi anche senza bisogno delle fibrillazioni arrivate tutte insieme la settimana scorsa, è facile concludere che, dopo una prima fase di navigazione senza veri intoppi, le difficoltà, per Giorgia Meloni, cominciano solo ora.