La fotografia del giuramento del nuovo governo è stata rovinata, tanto per cambiare, dall’odio social. La neo ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova è stata presa di mira per il suo abbigliamento, il suo aspetto e perché il suo titolo di studio si ferma alla terza media.

L’attacco all’aspetto della ministra è un mix, inquietante, di antico ma sempreverde sessismo e di una nuova forma di violento disprezzo che è connaturata all’acquario del web. Gli insulti e il non meno grave dileggio sono venuti da perfetti sconosciuti, i famosi leoni di tastiera, ma anche da qualche personaggio più in vista, come il giornalista de La Verità Daniele Capezzone, che dovrebbe avere molto più a cuore di tutti gli altri il rispetto, visto il delicato ruolo che svolge. Per fortuna la solidarietà è stata altrettanto bipartisan, dal Pd a Mara Carfagna, passando dal web, sono stati molti i messaggi di vicinanza rivolti a Teresa Bellanova che ha a sua volta replicato: «L’eleganza è rispettare il proprio stato d’animo».

Non è un episodio da prendere sotto gamba, è al contrario la viva rappresentazione di quell’imbarbarimento collettivo a cui abbiamo assistito in questi anni. È una débâcle del sistema di relazioni e del modo che abbiamo di comunicare che deve essere assolutamente sconfitto, altrimenti rischiamo il collasso definitivo del sistema democratico.

La neo ministra è stata pesantemente insultata anche per il suo titolo di studio. Poco importa che da giovane abbia lavorato nei campi come bracciante, che poi sia diventata una rappresentante sindacale e infine una parlamentare competente e combattiva. Fior fior di politici del passato venivano direttamente dalla fabbrica o dai campi, senza passare dall’università, e nessuno se ne stupiva. Adesso, proprio coloro che usano i social senza conoscerli e che scrivono in un italiano incerto usano il tema della mancanza di un diploma o di una laurea per screditare l’avversario. Non c’è infatti dietro un ragionamento, una critica argomentata ma la voglia di insultare, offendere, schiacciare l’altro. Freud avrebbe forse parlato in questo caso di pulsione di morte. Una ferocia distruttiva che si veicola contro l’altro e contro lo stesso consesso civile. Ma questa pulsione non riguarda solo la destra. Anche a sinistra spesso il dileggio e le accuse prendono il posto della critica. Il caso Bellanova arriva infatti dopo le prese in giro e gli insulti rivolti contro Daniela Santanchè, colpevole di essersi presentata in Senato con una acconciatura troppo audace. E che dire dei Cinque stelle i più feroci e sessisti nei confronti di Maria Elena Boschi. Ma anche Luigi Di Maio è spesso vittima del disprezzo della sinistra che non gli perdona di aver lavorato al san Paolo come, detto con disprezzo, “bibitaro”. Invece di valorizzare l’ascensore sociale che gli ha permesso di passare da un lavoro umile alla guida di un ministero, disprezzano un meccanismo, peraltro oggi molto in crisi, che proprio la sinistra dovrebbe promuovere. Le critiche a Di Maio vanno fatte, nel merito, sulla sua azione politica di oggi, non sul suo percorso o su i suoi titoli di studio.

Si può derubricare tutto questo a questione di costume, farsi qualche risata e andare avanti. Ma non è così. In una società in cui i simboli sono al centro del dibattito politico e mediatico, è pericoloso sottovalutare i pericoli che scaturiscono dagli insulti e dall’odio social. Lo sforzo per fermarli deve essere fatto da tutti. È vero infatti che in questi anni una parte della politica ha avvelenato i pozzi, aizzando le persone contro nemici spesso inventati. Ma lo sforzo non può essere quello di «costituzionalizzare i barbari» come detto da alcuni esponenti del Pd. In questo modo ci si mette sul piedistallo e soprattutto si scaricano tutte le responsabilità sugli altri. Il clima avvelenato che viviamo oggi richiede una auto critica da parte di tutti. Per esempio, la sinistra dovrebbe fare ammenda per un antiberlusconismo fondato sulla lotta politica vissuta come guerra al nemico, dovrebbe chiedere scusa per almeno venti anni di giustizialismo e di moralismo.

Chi non ha peccato scagli la prima pietra, verrebbe da dire. Lo sforzo di uscire da questa inciviltà del linguaggio social e politico dovrebbe essere fatto da tutti. Lo scontro è tra civiltà e barbarie, ma i barbari non sono gli altri, siamo anche noi.