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Gianluca Zuddas/LaPresse
Tutti i leader del centrodestra sul palco e non è la prima volta. Tutti di fronte al microfono per l'appello al voto sardo, e questo invece è un inedito assoluto. Non era mai successo che i leader della destra prendessero tutti la parola, uno dopo l'altro. Segno di coesione e stabilità, indice di fiducia reciproca e compattezza solida nonostante le inevitabili sfumature diverse. Una bella foto, però finta e bugiarda. Capita che la cerimonia degli abbracci capiti proprio nel momento di massima diffidenza reciproca sinora e nulla autorizza a pensare che il punto più basso nei rapporti interni alla maggioranza sia stato raggiunto. Anzi.
Alla vigilia, negli uffici di palazzo Chigi, la tensione era palpabile: le elezioni già vinte, con l'opposizione divisa e Soru in corsa per rubare voti agli ex compagni di partito, si sono configurate all'improvviso come un rischio. Non è questo però l'aspetto più allarmante. Altrettanto palese, infatti, era il sospetto che a mettere in pericolo il successo previsto potrebbe essere l'alleato principale della premier, il suo vice Matteo Salvini. Il dubbio, insomma, che il leghista punti sul voto disgiunto per abbattere Truzzu, il candidato che gli è stato imposto da Giorgia d'autorità, mettendo alla porta il “suo” presidente uscente, Solinas. È molto probabile che quei sospetti siano infondati ma l'elemento rilevante è che ci sono e questo dice tutto sullo stato dei rapporti reali, lontano dalle foto ricordo agiografiche, nella destra.
Colpa della tensione su quel terzo mandato per i governatori che andrà al voto oggi, registrerà la spaccatura della maggioranza e sarà bocciato. Pronta a ritirare l'emendamento omologo sui sindaci dei Comuni più grandi, la Lega insiste invece su quello per i presidenti di Regione pur sapendo di non avere alcuna possibilità e anche questo è un dato eloquente: mantenere l'emendamento vuol dire fare in modo che la responsabilità di eventuali incidenti futuri ricada apertamente su chi boccerà l'emendamento. O per dirla con il governatore veneto Zaia, per chiarire chi è che «non fa quello che il popolo vuole e così si scolla dal popolo, che non se ne dimentica». Una formula che suona minacciosa e in effetti lo è, e nemmeno poco.
Colpa però anche del fattaccio sardo, con quella imposizione di un candidato di FdI al posto del governatore uscente targato Lega- Partito sardo d'azione: un ceffone che sarebbe stato bruciante comunque ma lo è tanto più dal momento che allo stesso tempo la premier non nasconde l'intenzione di sottrarre al Carroccio anche il Veneto, cioè la culla del leghismo. Colpa anche di un anno e mezzo speso costringendo Salvini a ingoiare di tutto, oltretutto dovendosi anche fingere felice e appagato.
In breve: se la premier rischierà domenica in Sardegna potrà prendersela solo con se stessa. Se eviterà l'inciampo con l'elezione di Truzzu dovrà comunque attendersi agguati dietro ogni angolo nei prossimi mesi, e anche per questo potrà prendersela solo con se stessa. In parte dipende dal carattere: Giorgia Meloni non è Silvio Berlusconi; non ha nulla della sua capacità di esercitare una leadership quasi monarchica difendendo però lo spirito di coalizione e non solo il primato del suo partito. Però nella sua imprudente incuria per gli alleati c'è qualcosa di più, che non attiene solo al caso personale ma a una degenerazione malata della politica tutta: nell'arco di pochi anni due leader hanno calamitato grandi consensi solo per bruciarli, essendosi convinti di essere tanto forti da non dover più temere nulla.
Renzi ha preso a schiaffi il suo partito e gli alleati: il conto gli è stato presentato al momento del referendum e ad abbatterlo non sono stati i rivali politici ma il fuoco amico. Salvini ha fatto saltare da solo il tavolo a metà di una partita che stava vincendo a man bassa per ingorda impazienza.
Giorgia Meloni rischia oggi di seguire le loro orme e anche lei, come Renzi poco meno di 10 anni fa, non ha nulla da temere dalla controparte e tutto da un fuoco amico che lei stessa invita a entrare in azione e a prenderla di mira. Può naturalmente essere che ne esca indenne e anzi rafforzata, essendo una leader capace alle prese con alleati infidi ma deboli e non in grado di tessere la tela dell'intrigo politico. Ma non è affatto detto e di occasioni per inciampare ce ne saranno di qui al referendum sul premierato sin troppe.