«Non possiamo permetterci elezioni anticipate». Tranne Giorgia Meloni, quasi tutti i leader politici ripetono da settimane lo stesso stornello. Un modo allontanare il più possibile lo spettro di uno scenario più che probabile alla vigilia dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Perché che in pochi abbiano voglia di confrontarsi anzitempo con le urne è certo, che nessuno faccia niente per evitarle pure. L’unica soluzione per tenere in piedi questa malconcia maggioranza sarebbe individuare una personalità abbastanza autorevole e trasversale da garantire tutti gli attori in campo, a partire dal presidente del Consiglio Mario Draghi, che di certo non rimarrebbe un giorno in più a Palazzo Chigi per farsi impallinare dai suoi stessi “sostenitori” in assenza una garanzia presidenziale di stabilità. Il paradosso è che sarebbe lo stesso premier a corrisponderebbe perfettamente all’identikit del candidato ideale al Colle, ma un suo trasloco equivarrebbe a un segnale di smobilitazione generale che farebbe scivolare velocemente il Paese verso nuove elezioni. O almeno è questo il ragionamento, e il terrore del vuoto, che spinge buona parte dei leader di partito a invocare una permanenza di Draghi alla guida del governo. Nessuno, ad oggi, potrebbe infatti sostituire l’ex capo della Bce a Palazzo Chigi. A meno che qualcuno non accetti il ruolo di parafulmine, chiamato a capitanare una sorta di esecutivo “per gli affari correnti” che resti in carica per un altro annetto e porti la legislatura a scadenza naturale. Nel frattempo, i partiti avrebbero mani libere di ingolfare l’azione decisionale scontrandosi allegramente su ogni singolo provvedimento, in una guerra di distinguo e bandierine da difendere in vista dell’imminente campagna elettorale. È il sogno dei peones, partito trasversale e di maggioranza relativa in Parlamento, disposti a sostenere qualsiasi “accrocco” pur di non scendere dalla giostra in anticipo. Ma un esecutivo non può reggersi solo sul sostegno dei peones e senza alcuna prospettiva politica, men che meno un esecutivo chiamato a portare comunque a termine il lavoro iniziato per mettere in sicurezza il Pnrr con gli occhi di Bruxelles addosso. Servono soluzioni credibili che al momento scarseggiano. Una parte dell’emiciclo confida ancora che a levare le castagne dal fuoco possa essere Sergio Mattarella, accettando il sacrificio di un secondo mandato per sopperire all’immobilismo della politica. Il senso delle istituzioni del Capo dello Stato uscente è fuori discussione, ma quel no a un bis pronunciato ormai a ogni uscita pubblica dovrebbe quantomeno suggerire ai partiti di maggioranza di individuare un solido “piano B”. L’unica B in campo al momento è quella di Berlusconi, cui il centrodestra ha giurato sostegno per la scalata al Colle, non esattamente il nome bipartisan di cui Draghi avrebbe bisogno per non muoversi da Palazzo Chigi. Il Cavaliere ci crede, Matteo Salvini e Giorgia Meloni un po’ meno ma si trincerano dietro al nome del leader per rivendicare il diritto della coalizione a individuare il successore di Mattarella. Pd e Movimento 5 Stelle temono colpi di mano da parte del centrodestra ma non sembrano in grado di lanciare una controproposta unitaria per il Colle in grado di spiazzare gli “alleati” di governo. Nessuno si sposta dal proprio fortino, tutti confidano nella sorpresa dell’ultimo minuto. E mentre, spaventati dal voto, i leader restano fermi, il voto rischia di andare prepotentemente incontro a loro.