Ciò che sembrava scontato fino a poche settimane fa adesso non lo è più: la vittoria del Sì al referendum costituzionale. Certo, i favorevoli al taglio dei parlamentari sono ancora una robusta maggioranza del Paese - circa il 65 per cento, secondo i sondaggi - ma è ben al di sotto delle aspettative iniziali. A turbare le notti dei sosteniori del Sì è soprattutto la quota degli indecisi. Quasi il 30 per cento degli italiani intenzionati a votare, infatti, non sa ancora cosa sbarrare il 20 e il 21 settembre, una fetta così ampia della popolazione da riaprire una partita cosiderata chiusa in partenza. «Il sì che una settimana fa era valutato sopra al 70 per cento adesso è stimato al 62,4, il no al 37,6», dice Roberto Baldassari, professore di Strategie di ricerca di opinione e mercato all’università Roma 3. «A differenza del No che risulta piuttosto stabile, le risposte sul Sì sono gradualmente diminuite nel corso dei giorni».

A pesare sull’incertezza c’è l’atteggiamento ondivago dei leader politici, fatta eccezione per Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia, e la convinzione crescente, inevitabile a poche settimane dal voto, che le urne sipossano trasformare in un test di gradimento sul governo. Potrebbe ripetersi il copione andato in scena il 4 dicembre del 2016, quando la bocciatura della riforma costituzionale voluta da Renzi si trasformò nella fine di quell’esperienza di governo. E più ci si avvicinerà all’appuntamento referendario, più la polarizzazione dello scontro si farà politica, lasciando in secondo piano le ragioni di merito sul quesito. O almeno questa è la speranza di alcuni esponenti dell’opposizione, capitanati da Renato Brunetta, convinti di poter dare la spallata definitiva a Giuseppe Conte. La tentazione di mandare a casa il governo con un No comincia a farsi largo anche nella Lega, dove elettori tre su dieci sono intenzionati a seguire questa strategia.

E se i militanti grillini, a differenza dei parlamentari, sembrano compatti sulla sforbiciata delle poltrone, il vero ago della bilancia potrebbero essere gli elettori del Pd, in alcune regioni divisi a metà tra la causa del Sì e quella del No. «Voglio citare i numeri delle tre regioni ( Campania, Veneto e Liguria, ndr) che abbiamo rilevato», spiega alla Stampa il politologo ed esperto d’elezioni Roberto D’Alimonte. «I democratici sono a favore del sì con una forbice che va dal 50 al 57 per cento. C’è dunque una consistente minoranza per il no. Questo vale anche per gli altri partiti a eccezione del M5S». Le titubanze di Zingaretti, schiacciato tra la ragion di Stato e quella di partito, non aiutano a chiarire il qudro. Soprattutto perché il fronte “ribelle” comincia a schierare l’artiglieria pesante a difesa del proprio fortino. Non può essere che letta in questa chiave la presa di posizione di Romano Prodi, il padre nobile del partito, che in un editoriale sul Messaggero scrive: «Penso che sia più utile al Paese un voto negativo». Per il Professore, il vero problema non sta nel «numero» ma nel «modo in cui» i parlamentari vengono eletti, ovvero «sostanzialmente nominati dai partiti». Un meccanismo su cui la riforma non andrà ad incidere in alcun modo. «Se vogliamo quindi rendere il Parlamento più autorevole e responsabile verso i cittadini, occorre fare ogni sforzo per orientarsi verso un sistema elettorale in cui i pariti siano spinti a scegliere candidati che per la loro autorevolezza abbiano maggiore probabilità di essere votati nel collegio con il quale dovranno mantenere rapporti continuativi per tutta la legislatura», argomenta Prodi, fornendo nuovo ossigeno ai nemici della riforma. La discesa in campo dell’inventore dell’Ulivo potrebbe cominciare a impensierire Di Maio e compagno. Perché in ballo a fine settembre c’è molto di più di una revisione costituzionale per l’attuale maggioranza. Una vittoria del No sarebbe un colpo di grazia per la più grande forza parlamentare del Paese, il Movimento 5 Stelle, già provato da una consistente perdita di consensi.

E non aiuta andare a consultare l’alamanacco dei referendum costituzionali per conoscere i precedenti: due volte su tre gli italiani hanno bocciato la modifica della Carta. L’unica vittoria risale al 2001, quando la riforma del titolo V ottenne il 64,2 per cento dei consensi, a fronte di un’affluenza del 34 per cento. Poi solo bocciature. È successo nel 2006, col referendum sulla devolution di ispirazione leghista, respinto col 61 per cento dei No, ed è accaduto nel già citato dicembre di quattro anni fa, quando la riforma Renzi- Boschi fu scartata da quasi il 60 per cento dei votanti, con un’affluenza record: il 69 per cento degli elettori. Meglio non guardarsi indietro, dunque, per i promotori del taglio parlamentare.

Ad aggravare la situazione, poi, ci si mette pure l’election day, con il rinnovo di ben sei consigli regionali. I grillini alle elezioni locali non hanno mai brillato per competitività e in questa tornata il loro scarso peso elettorale, unito all’ostinazione a correre da soli ovunque, fatta salva la Liguria, potrebbe rivelarsi fatale per l’alleanza coi dem. Il mancato sostegno al Pd, l’unica forza in grado di battere le destre sui territori, potrebbe infatti generare una slavina. Un eventuale 4 a 2 per l'opposizione, con la vittoria del centrodestra in Veneto, Liguria, Marche e Puglia aprirebbe un doppio fronte nel governo: un attacco interno ai dem, rivolto al segretario Nicola Zingaretti, e una resa dei conti tra grillini agli Stati generali. Il futuro di Conte sarebbe a rischio. Neanche un “pareggio”, un 3 a 3, metterebbe i grillini al riparo da polemiche. Che solo un trionfo dei Sì potrebbe stemperare.