Lo chiamavano “re Giorgio” e il soprannome, per nulla esagerato, dice molto su come il primo e unico esponente del vecchio Pci asceso al Colle interpretasse il suo mandato. Gli esempi sono innumerevoli ma anche solo i più clamorosi bastano a inquadrare la particolarità di quella presidenza. Nel novembre del 2010 la rottura tra Berlusconi e Fini sembrava dover decretare la caduta del governo del Cavaliere. I numeri parlavano chiaro, le mozioni di sfiducia erano state depositate. Napolitano si mise di mezzo chiese sia a Fini che al Pd di posticipare il voto per non mettere a rischio l'approvazione della legge di bilancio. Il Pd era già allora condizionato in ogni sua scelta dal peso di un presidente della Repubblica che aveva però potere assoluto sul suo partito di provenienza. Fini, allora presidente della Camera si piegò, anche perché non era certo facile dire di no a Giorgio Napolitano. Per Berlusconi quel mese di dilazione significò la salvezza: gli diede il tempo per allestire la campagna acquisti che il 14 dicembre, a sorpresa e grazie al passaggio di campo di due senatori eletti con l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, portò alla sconfitta della mozione di sfiducia e alla disfatta di Gianfranco Fini.

Non che Napolitano intendesse fare un favore a Silvio Berlusconi. Ma tutta la sua presidenza era stata segnata da una strenua campagna contro il rischio di elezioni anticipate. Considerava l'interruzione anzi tempo delle legislature la grande iattura della politica italiana e adoperò tutte le sue numerose armi, sino a una forzatura estrema del suo ruolo, per evitare quell'esito. L'ex dirigente del Pci, ex ministro dell’Interno, ex presidente della Camera, inoltre, non interpretava affatto il ruolo del primo cittadino come quello di un arbitro che osserva senza impicciarsi. Al contrario, dal primo all'ultimo giorno del suo regno fece del Quirinale un potente soggetto politico pronto a entrare in partita ogni volta che il presidente lo ritenesse opportuno “nell'interesse del Paese”.

Nel marzo del 2011 Berlusconi era fermamente contrario, come ammetterà anni dopo lo stesso Napolitano, alla partecipazione dell'Italia alla spedizione militare delle potenze occidentali in Libia, tanto da minacciare le dimissioni. I fatti gli avrebbero poi dato ragione. Il presidente della Repubblica e capo delle Forze Armate aveva invece convocato il Consiglio supremo di difesa e preso apertamente posizione a favore dell'intervento. «Gheddafi sta sfidando il mondo e l'Italia non può restare indifferente», aveva detto. La decisione tedesca di non attaccare la aveva definita «incomprensibile».

Quando la notizia dell'attacco imminente arrivò a Roma, il 18 marzo, tutti i vertici istituzionali erano al Teatro dell'Opera, dove andava in scena il Nabucco in onore dei 150 anni dell'unità d'Italia. Berlusconi, Letta, il ministro della Difesa La Russa e i capi di Stato maggiore si appartarono in una saletta. Il presidente irruppe poco dopo e dopo il suo pronunciamento, in qualità appunto di capo delle Forze armate, per un Berlusconi già fiaccato dalla ribellione interna che lo aveva quasi scalzato meno di tre mesi prima resistere era impossibile. L'Italia partecipò così a una guerra il cui vero obiettivo era proprio scalzare la posizione privilegiata dell'Italia in Libia.

Quando nell'estate dello stesso anno si scatenò la tempesta dello spread, il presidente era già fermamente deciso a liberarsi dal governo Berlusconi. Il nome del successore, Mario Monti, circolava da molto prima che lo spread iniziasse la sua pazza corsa in agosto. «Alcuni segnali mi erano arrivati già da giugno, ma cosa c'è di strano?» avrebbe ammesso candidamente Monti qualche anno dopo. In agosto, dopo l'invio della lettera memorandum all'Italia il presidente, secondo la ricostruzione dello stesso Monti, «mi fece capire che in caso di necessità dovevo essere disponibile». Il 9 novembre Napolitano nominò Monti senatore a vita. Una settimana dopo, a seguito delle dimissioni di Berlusconi, era presidente del Consiglio.

Il presidente, fresco di rielezione, rispose spiegando le sue attività con «il sempre più evidente logoramento della maggioranza di governo» e almeno in parte era certamente sincero. Napolitano era un politico della vecchia scuola, mai sedotto dalla retorica un po' demagogica della trasparenza assoluta, convinto invece che la difesa di quelli che considerava in assoluta onestà «gli interessi del Paese» andasse organizzata e gestita muovendosi attivamente. Lo aveva già provato a fare, al momento della caduta del governo Prodi, nel 2008 insistendo inutilmente perché il professore si sottraesse al voto del Senato, evitando così di perdere ogni chance di rientro in gioco. Già allora il suo obiettivo era evitare la fine anticipata, in quel caso molto anticipata, della legislatura, verificando la possibilità di una maggioranza di larghe intese.

La nascita di quella maggioranza, la seconda dopo Monti, Napolitano la avrebbe posta come condizione per accettare il secondo mandato, nel 2013, dopo il disastro della bocciatura di Prodi da parte di 101 franchi tiratori. Napolitano a quel secondo mandato non ambiva proprio, lo considerava anzi un pessimo precedente, destinato a ripetersi e aveva ragione. Forse proprio perché sapeva di aver forzato al massimo i limiti del suo ruolo istituzionale, riteneva pericoloso che un presidente diventato grazie a lui figura essenziale del gioco politico potesse regnare per 14 anni. Si dimise infatti meno di due anni dopo la nuova elezione. Ma dopo il suo passaggio il Quirinale non poteva tornare a essere quello di prima: ormai era, e in qualche misura è rimasto, nonostante lo stile di Mattarella così distante da quello del predecessore, il palazzo reale.