Cosa vuole Mario Draghi quando si tratta di pensioni, eterno tormento che rispunta da decenni incurante dei cambi di governo o dei passaggi da una fase della storia repubblicana all'altra? La risposta è semplice e secca: vuole il ritorno pieno della riforma Fornero, o, come ha detto lui stesso, «il ritorno alla normalità».

Il premier sa bene di non poter cancellare con un colpo di spugna quota 100: troppe persone verrebbero travolte, capitombolerebbero dal cosiddetto “scalone”, il salto di cinque anni in un colpo solo per poter andare in pensione, e si romperebbero le ossa. Non è quello che vuole l'inquilino di palazzo Chigi e comunque a sfracellarsi non sarebbero solo molte esistenze individuali ma anche la popolarità e la credibilità del suo governo. Nella crescita irruenta dei movimenti antisistema, nel decennio scorso, la riforma di Elsa Fornero e la tragedia degli “esodati” giocarono una parte non secondaria. Di conseguenza palazzo Chigi e il ministero dell'Economia sono disposti ad ammorbidire la caduta, dosarla gradualmente ma rapidamente, nel giro di due o tre anni. Ma il traguardonuno ha la propria formula alternativa, e spesso differiscono radicalmente.

La Lega, che deve difendere la bandiera quota 100, accetterebbe un peggiori. Conte, che in fondo era a capo del governo quando quota 100 prese il via, punterebbe sui prepensionamenti, ma sottolineando quanti problemi e sofferenze abbia prodotto quella riforma nel Paese. I sindacati minacciano una sciopero generale che per il Pd sarebbe catastrofico contropronendo una serie di interventi articolati, centrati sulla flessibilità che però prefigurano una vera nuova riforma delle pensioni. Solo che per Draghi di una nuova riforma non c'è alcun bisogno. La “normalità” c'è già, si chiama Fornero e si tratta solo di ripristinarla.

Il conflitto che, pur se tenuto a forza sotto traccia, si configura qui è palese. Il sistema politico italiano non aveva scelto quella riforma delle pensioni: la ha subìta con i cannoni dello spread puntati contro e dopo averla malvolentieri ingoiata non la ha mai digerita, mai apprezzata. Quella riforma la ha decisa, voluta e imposta l'Europa, tra i cui quadri di comando, e in una delle postazioni decisionali più nevralgiche, c'era appunto Draghi. Nell'Italia di oggi si è creata una situazione per alcuni versi assurda. Al comando, con poteri molto vicini all'essere totali pur se non assoluti, c'è una delle figure chiave che imposero la riforma più dolorosa della storia italiana recente. A sostenerlo, con poco potere ma con qualche esiguo margine d'azione, c'è quella politica che la riforma non la voleva, la ha dovuta accettare a forza, ne ha pagato i prezzi in termini di consenso.

Oggi la forza di Draghi e la speculare debolezza della politica sono tali da non lasciare molti dubbi su chi la avrà vinta. La riforma Fornero tornerà in pompa magna, magari festeggiata da molti di quelli che la avevano criticata. Ma la ferita non si rimarginerà. Sin qui Draghi ha proceduto ignorando la politica, accettando mediazioni, sì, ma sempre e solo in un raggio molto corto e limitato. Senza però mai entrare in conflitto diretto con la politica: solo con alcuni specifici partiti peraltro in poche occasioni. La sfida sulle pensioni, un po' perché tocca la vita di moltissime persone, un po' per la sua valenza politica e simbolica, pone il problema a un altro e più profondo livello. La decisione di non trattare creerà una ferita profonda. Tutti si sbracceranno per tenerla nascosta ma non si rimarginerà e si rivelerà in tutta la sua portata, come spesso capita in Italia, quando Draghi, per un motivo o per l'altro, non sarà più nella posizione di onnipotenza nella quale si trova oggi.