Da un lato partito in attesa di conoscere il nome del suo nuovo leader e dall’altro una schiera di osservatori esterni estremamente interessati. Perché il congresso del Pd non riguarda solo il Pd, i suoi iscritti e i suoi elettori. Ad attendere la fine della partita, per motivi differenti, ci sono parecchi "vicini di casa". A partire da Matteo Renzi, l'ex segretario del 40 per cento che abbandonò la casa madre in macerie per avere libertà d'azione all'indomani della nascita del Conte uno, il governo inaspettato reso possibile proprio grazie a una mossa del cavallo dello scacchista Matteo. E adesso l'ex premier, momentaneamente accasatosi alla corte di Calenda per rifiatare, aspetta di conoscere il nome del futuro segretario dem, con una consapevolezza: il Pd non rimarrà intatto davanti a qualsiasi risultato. E mai come alla vigilia di queste primarie l'esito si presenta più che incerto, senza alcun rischio di conclusione bulgara. Certo, Stefano Bonaccini affronta il duello con tutti i favori dei pronostici, ma neanche il più fervido bonacciniano sarebbe disposto a scommettere un euro su un ovvio trionfo del governatore. Non si tratta di incertezza scaramantica, quella del fair play peloso del “mai sottovalutare l’avversario”, ma di una reale incapacità di controllo delle troppe variabili in gioco: affluenza, caratteristiche dell’elettorato che domani andrà ai gazebo, capacità di mobilitazione di Schlein fuori dal partito. Bonaccini potrà contare sull’aiuto tutt’altro che secondario di Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, colleghi governatori di Campania e Puglia, maestri di consenso e manovratori di truppe, ma i “ma” restano in campo.

Ed è proprio su uno di quei “ma” che si ferma la curiosità di Renzi. Perché qualora domenica sera, contro ogni previsione, l’outsider Elly dovesse prevalere sull’organico Stefano, la storia del Pd potrebbe subire una sterzata decisiva. Difficilmente, infatti, l’interno blocco politico dem che ha deciso di puntare tutte le fiches sulla vittoria del governatore emiliano-romagnolo si sentirebbe a proprio agio sotto il “regno” della “radicale” Schlein. A partire dagli eterni ex renziani di Base riformista, schierati in massa, seppur senza insegne di corrente ormai, dietro le file del candidato Bonaccini, di cui condividono pragmatismo e quella vecchia idea di un partito in mano agli amministratori, agli uomini del fare. Un’affermazione dell’ex leader di Occupy Pd potrebbe rappresentare una minaccia per questa fetta di partito ancora potente e numerosa. E la convivenza non sarebbe più cosa scontata. È su questa tensione che Renzi ha puntato gli occhi, il motivo per cui avrebbe preferito rinviare la nascita di un soggetto unico con Calenda a dopo le elezioni europee del 2024. Aspettare di vedere la possibile esplosione delle contraddizioni dem per costruire, eventualmente, un contenitore più ambizioso e più ragionato, capace di accogliere transfughi e, chissà, scissionisti carichi di voti e determinazione. La “casa dei riformisti” così nascerebbe su fondamenta più solide.

Diverso, invece, lo scenario in caso di vittoria del favorito. Troppo variegate le anime e le culture che sostengono Schlein anche solo per immaginare una scissione: da Franceschi a Orlando, passando per Letta e il mondo dell’associazionismo esterno al Pd. Impossibile anche concepire soltanto una fuga di massa in una direzione univoca. Renzi lo sa e attende, i pop corn non sono ancora finiti, mentre Calenda corre già verso un traguardo che lunedì potrebbe già essere inutile.