In politica, spesso, la scelta dei tempi è l'essenziale e ne sa qualcosa il Matteo Salvini del Papeete. Di certo Giuseppe Conte ha mancato martedì al Senato e poi ieri alla Camera l'occasione perfetta per uscire dal governo e provare almeno a giocare una partita altrimenti compromessa.

L' avvocato del popolo aveva preparato per settimane il terreno in vista del sospirato dibattitto sulla guerra, il primo seguito da un voto dai primi di marzo: un lasso di tempo enorme nelle circostanze date. È probabile che le intenzioni dell'ex premier non fossero quelle di aprire una crisi. Mirava a condizionare il governo al fronte della fornitura di armi all'Ucraina, col che avrebbe ottenuto il doppio esito di portare a casa un risultato brillante e di giustificare agli occhi del suo sempre più scettico elettorato la permanenza in maggioranza. C'era in questo progetto una dose imperdonabile di ingenuità. Il modus operandi di Draghi è diametralmente opposto e la guerra, con il suo portato di delicatissime relazioni internazionali è il terreno più sfavorevole per tentare di smuovere dal suo dirigismo estremo.

Qualunque illusione il leader dei 5S potesse aver nutrito, negli ultimi giorni prima della prova, e in particolare nel lunghissimo vertice di maggioranza concluso quando ormai il dibattito in Aula era già in fase avanzata, è stato evidente che Draghi non avrebbe concesso al suo predecessore, con il quale i rapporti peraltro sono notoriamente pessimi, neppure l'onore delle armi, neanche una concessione cosmetica necessaria per fingere almeno di aver raggiunto un sia pur modesto risultato.

La scissione, annunciata da Di Maio probabilmente non a caso proprio nel momento cruciale dello scontro tra i 5S e il governo, ha certamente indebolito le posizioni dell'ex premier ma in realtà gli ha anche offerto la via d'uscita dal vicolo cieco nel quale si trovava: l'impossibilità di uscire dal governo, o addirittura alla maggioranza, senza provocare crisi ed elezioni anticipate. È vero che Conte ha dovuto prendere la sua decisione rischiando, se non si fosse piegato, di offrire allo scissionista un comodo alibi. Però il ricatto era senza dubbio meno estremo di quello consistente nel provocare una crisi di governo in un momento difficilissimo.

A fermare il leader dei 5S, spingendolo ad accettare una conclusione del braccio di ferro molto simile a una resa incondizionata, sono state due considerazioni correlate. La prima è che la rottura avrebbe giustificato la scelta di Di Maio regalandogli un argomento prezioso nella competizione per la conquista dell'elettorato comune che, come sempre nei casi di scissione, sarà forsennata. La seconda e principale è che rompere sull'Ucraina avrebbe significato esporsi a un vero e proprio massacro mediatico e non solo mediatico. L'ex premier sarebbe diventato ' il putiniano', il nemico numero uno per poteri nazionali e internazionali il cui peso è immenso, il bersaglio di una campagna durissima e permanente.

Non sono considerazioni infondate, al contrario. Il punto però è che a quella campagna Conte non scamperà comunque. La sola via d'uscita sarebbe stata un allineamento totale alle posizioni del governo, sul modello del Pd o di Fi. In questo modo Conte sarebbe sfuggito alla tagliola sempre letale del ' partito di lotta e di governo' ma sacrificando ogni possibilità di restituire fisionomia, identità e profilo autonomo ai 5S. La fronda a parole, seguita poi dall'obbedienza nei fatti, come le Amministrative hanno già dimostrato, non affranca dalle accuse di intelligenza col nemico di Mosca: in compenso condanna a un ruolo e a un'immagine di velleitaria impotenza.

La guerra e le armi, inoltre, sono da un lato temi eminenti dell'elettorato, o dell'ex elettorato 5S: nella competizione con Di Maio rivendicare la coerenza con quell'impostazione avrebbe avuto probabilmente efficacia maggiore delle accuse di Di Maio, che in fondo rinfaccia solo ai 5S di essere ancora i 5S. Ma soprattutto l'avvocato del popolo, che sul piano della comunicazione dà il meglio, avrebbe potuto provare a proporsi come rappresentante di quella ampia parte della popolazione che sul tema oggi più centrale di tutti, quello della guerra, è di fatto privo di rappresentanza politica. Non che i rischi temuti da Conte fossero immaginari: ma le chances erano altrettanto numerose e anche più promettenti.

Peraltro, dopo un massacro politico come quello degli ultimi giorni, i 5S saranno probabilmente costretti comunque a uscire almeno dal governo. Conte medita di farlo in settembre- ottobre, sulla legge di bilancio, cioè su temi che la popolazione vive ogni giorno sulla propria pelle ma meno incandescenti. I fatti si incaricheranno di dimostrare se il calcolo prudente sarà confermato dai fatti. Ma di certo, per ora, Conte esce dalla prova quasi azzerato e la legge di bilancio, in tempi come questi, è lontanissima. Forse troppo per sperare in un recupero.