«Io a quello gli leggo la vita» : era la frase tipica di Fernando Tambroni, ministro degli Interni dal 1955 al 1959, poi capo del governo sostenuto dal Msi e abbattuto da una rivolta popolare nel luglio ' 60. La lussureggiante foresta dei dossier non nasce certo con lui: negli anni del regime l'Ovra si era data moltissimo da fare e anche nella Repubblica il pioniere era stato Mario Scelba.

«Da ministro degli Interni concepì l'idea di mettere insieme una serie di fascicoli su personalità di primo piano», segnalava un rapporto della Cia di qualche anno più tardo.

Ma il vero modernizzatore, il primo ad adoperare il dossieraggio su vasta scala, fu Tambroni. Fa fede ancora il rapporto Cia: «Diventato ministro degli Interni dette ordine di all «rgare la raccolta e con l'aiuto di giornalisti suoi stretti associati fondò l'agenzia Eco che fungeva da paravento, In breve la lista dei fascicoli fu estesa sino a coprire migliaia di nomi”.

Tambroni, che era un avventuriero fedele soprattutto alla propria carriera, fece di più.

Affidò la Divisione Affari riservati del Viminale, il futuro Sisde, a Domenico De Nozza, proveniente da Trieste, città di confine con l'est all'avanguardia nelle attività di spionaggio. De Nozza portò in dote una squadretta di agenti tra i quali il futuro questo Mangano. Tambroni li alloca in tre appartamenti segreti, dove i superagenti si muovono in quasi totale autonomia, dribblando la presidenza del consiglio stessa ma a stretto e continuo contatto con la Cia. Il Sifar, il servizio segreto delle Forze armate, li odiava. I leader democristiani, che dell'avventuriero Tambroni diffidavano, li temevano. Alla fine un'operazione di provocazione contro il Pci in Sicilia fornì alla questura di Roma la scusa per irrompere nel principale dei tre appartamenti, fingendo di non sapere cosa stesse avvenendo. Angelo Mangano provò a nascondersi sotto il letto.

Fingendo di non capire cosa significassero gli apparecchi per intercettazioni di cui la casa era piena il questore mise gli agenti di Tambroni in manette e mette fine alle attività dossieristiche di Tambroni, che passa dagli Interni al Bilancio ma si porta nella villa sarda i dossier principali inclusi quelli raccolti da Scelba. Finiranno tutti, di lì a poco, nel mostruoso archivio del Sifar.

Diretto dal generale De Lorenzo dal 1955 il Servizio si era dato all'inizio poco da fare: 2mila dossier in tre anni, poca roba. Dal 1958 però De Lorenzo prende la rincorsa, la sorveglianza dilaga a macchia d'olio e arrivano come gradito dono anche i fascicoli di Tambroni: nel 1960 erano saliti sino a 17mila, due anni dopo raggiungevano i 117mila, nel 1967, secondo un calcolo per difetto della commissione d'Inchiesta guidata dal generale Beolchini erano 157mila. “Per contenerli tutti ci vuole, se non una piazza, un salone molto grande”, spiegò Beolchini.

La schedatura a tappeto illegale era venuta fuori in seguito alla guerra senza esclusione di colpi, e giocata tutta a colpi di veline e dossier, tra De Lorenzo, diventato nel frattempo capo di Stato maggiore dell'Esercito mantenendo però attraverso i suoi fedelissimi il controllo sul Sifar, e il capo di Stato maggiore della Difesa generale Aloja. Fu Aloja, per sferrare un colpo da ko all'avversario, a far filtrare la notizia dei fascicoli Sifar. Per distruggere i fascicoli ci vollero comunque 7 anni. Il 9 agosto 1974 il ministro della Difesa Andreotti presiedette di persona all'incenerimento di 200 scatoloni pieni di segreti. E' probabile che molti di quei fascicoli siano però scampati all'inceneritore. Nel frattempo un episodio nato in circostanze da commedia all'italiana aveva svelato i rapporti inconfessabili tra le schedature dello Stato e quelle delle aziende private. Nel settembre 1970, un dipendente Fiat ed ex carabiniere, Caterino Ceresa, intentò una causa di lavoro essendo stato licenziato “per ingiusta causa”. Figurava come fattorino ma sosteneva invece di aver avuto ben altre mansioni, avendo passato 17 anni a spiare gli operai “sovversivi” per conto dell'azienda.

Ceresa perse la causa ma qualche mese dopo, sulla base delle sue deposizioni, il pretore di Torino Guariniello si prsentò a sorpresa negli uffici dei “Servizi generali” della Fiat. Ci trovò dentro 354mila schede su attività e opinioni politiche, abitudini private e sessuali, abitudini e vita privata di altrettanti lavoratori, interni alla Fiat ma non solo. La schedatura era iniziata nel 1949 ma si era gonfiata a dismisura negli ultimi anni.

Tra gli informatori della Fiat, anch'essi debitamente schedati, c'è di tutto: pesci piccoli, grossi e grossissimi come il questore Guida o il capo del Sid del Piemonte. Il pretore però sospetta che per aver messo insieme un archivio di tali dimensioni debba aver collaborato, nel corso del tempo, anche il Sifar. L'uomo chiave sarebbe in questo caso il colonnello Renzo Rocca, capo del Rei, settore del servizio formalmente delegati a occuparsi del controspionaggio industriale, in realtà centro di finanziamento e gestione delle attività di contrasto al comunismo. Amico di Valletta e del provocatore anticomunista Luigi Cavallo, eminenza grigia di tutte le principali attività politiche del Sifar per 18 anni, Rocca era stato costretto al pensionamento anticipato nel giugno 1967 ed era passato direttamente alle dipendenze della Fiat, con ufficio in una palazzina di lusso in via Barberini a Roma. Il 28 giugno Rocca avrebbe dovuto deporre sul Piano Solo. Il 27 giugno si uccise, in quelle che suole definirsi “circostanze misteriose”, con la Beretta dorata, calcio in madreperla, regalatagli dal dottor Beretta in persona.

Nell'Ufficio del morto, prima che l'accesso sia consentito agli agenti del commissariato, sfila una vera e propria processione: prima gli agenti del Sid, poi quelli del controspionaggio, infine quelli dell'ufficio Affari riservati del Viminale. Perquisiscono, interrogano, forse istruiscono la sola testimone, probabilmente requisicono. La guerra dei dossier era una cosa seria e a volte sanguinosa allora. Chissà che non lo sia ancora.