Nell'intervista di oltre un'ora rilasciata due giorni fa al compiacente Bruno Vespa la presidente del Consiglio ha chiarito anche ai meno attenti che al centro della sua strategia c'è una sola riforma, l'unica che le interessi davvero: il premierato. È indicativo che alle altre due “grandi riforme” promesse dalla sua coalizione in campagna elettorale Giorgia Meloni non abbia proprio fatto cenno anche se una, l'autonomia differenziata, è in dirittura d'arrivo, candidata all'approdo nell'aula di Montecitorio per l'approvazione definitiva già il 29 aprile. Ma quella è una riforma della Lega, che la premier subisce senza apprezzarla e che probabilmente si augura venga abbattuta dalla Corte costituzionale. Meloni si scalda altrettanto poco per la separazione delle carriere voluta da Forza Italia e destinata salvo sorprese a finire sepolta in un cassetto. Per la premier c'è una sola riforma che conti: la sua.

In un'intervista per tutto il resto di routine, nella quale l'intervistata ha detto il meno possibile, la mamma della riforma ne ha chiarito il senso e allo stesso tempo ha respinto vigorosamente l'accusa di cancellare o quasi il ruolo del capo dello Stato con la medesima riforma. Si sa che proprio quell'argomento, è e sempre più sarà la punta di diamante della campagna referendaria contro la riforma. I due temi sviluppati da Giorgia Meloni, però, sono in palese contraddizione. Se gli obiettivi del premierato sono quelli illustrati nel salotto di Vespa, non per la prima volta però mai così compiutamente, il ruolo del Quirinale non può che essere drasticamente ridimensionato. E viceversa: difendere davvero le prerogative del presidente vorrebbe dire sacrificare la mèta a cui la riforma costituzionale mira.

Obiettivo eminente dell'intervento radicale sulla Carta, ha spiegato infatti la premier, è impedire che si formino maggioranze diverse da quella uscita dalle urne nelle elezioni politiche e rendere molto difficile, anche se non impossibile, la sostituzione del premier votato direttamente dagli elettori. Il ruolo del capo dello Stato, però, diventa davvero incisivo, solo nei momenti di crisi di una maggioranza. I suoi poteri sono, come dice in gergo, “a fisarmonica”: sostanzialmente limitati quando le maggioranza sono solide e stabili, estremamente incisivi quando si producono simili crisi. È in quei casi che, per impedire lo scioglimento anticipato delle Camere, il presidente può esercitare i suoi poteri formali e la sua moral suasion perché si formi un'altra maggioranza o perché la stessa maggioranza eviti il ricorso alle urne convergendo su un diverso premier. Se a questo radicale cambiamento nella Costituzione formale si aggiunge quello inevitabile nella Costituzione materiale, cioè l'impennata nel peso specifico di un premier forte dell'elezione diretta a scapito di quello di un presidente non supportato dall'elezione diretta, se ne conclude che è del tutto impossibile coniugare il senso della riforma con la difesa del ruolo e delle prerogative del Colle.

Ci sono altri limiti nella visione illustrata dalla presidente del consiglio: il senso del premierato sarà condizionato in modo determinante dalla legge elettorale che sarà adottata ma qui, in particolare su un punto decisivo come l'eventuale ballottaggio, l'artefice numero uno della riforma si è dichiarata «laica». Cioè ha preferito tenere la bocca cucita sulle proprie intenzioni, ammesso che in merito abbia un'idea precisa ma non averla sarebbe grave. Ha anche accennato alla sua disponibilità all'elezione diretta non del premier ma dello stesso presidente: una boutade con il premierato già in discussione al Senato ma non priva di un contenuto minaccioso: “Se proprio insistete con il presidente, io sono pronta”. Il pasticcio della norma antiribaltone, la possibilità di cambiare premier una volta per legislatura, resta irrisolto e ha potenzialità destabilizzanti di notevole portata.

Ma lo scontro, prima in aula, poi nella campagna referendaria, sarà al 90 per cento giocato sui poteri del Colle, sia perché quella è effettivamente una componente essenziale nella ratio della riforma sia perché il fronte antiriforma ritiene di avere solo quella carta davvero forte da giocare. Le due campagne hanno però un elemento in comune: entrambe si disinteressano completamente del ruolo destinato al Parlamento nella nuova architettura costituzionale. La premier non lo nomina proprio. Il fronte antiriforma lo cita in coda agli alti lai per l'attacco al Colle, più come atto dovuto che per convinzione. Basta e avanza per capire che quel ruolo, nel nuovo edificio e in buona misura anche in quello di oggi, semplicemente non esiste.