C’era una volta la Democrazia Cristiana. Anzi, c’è ancora. Anzi, ce ne sono diverse. Alcune legittime, altre “apocrife”, tutte convinte di custodire l’ultimo frammento di storia autentica del partito che per mezzo secolo ha governato l’Italia.

L’ultima puntata della telenovela ha avuto l’input di Gianfranco Rotondi, presidente della Dc “ufficiale”, o almeno di quella che nel 2004 ottenne in tribunale l’uso esclusivo del nome.

Rotondi è intervenuto a gamba tesa nella querelle che si è accesa tra il sempreverde Totò Cuffaro e il senatore Maurizio Gasparri. La potente corrente sicula dei cuffariani rimprovera a Gasparri di aver firmato un accordo con il senatore Raffaele De Rosa, il quale, per Cuffaro e i suoi, non avrebbe alcun titolo per agire in nome del glorioso scudo crociato. «Cuffaro accusa Gasparri di fare ciò che lui ha fatto a me», sostiene Rotondi ricordando episodi analoghi del passato che hanno visto Rotondi e Cuffaro affrontarsi di petto, con quella punta di sarcasmo che rende le guerre tra ex democristiani un genere a sé.

Per i non addetti ai lavori, la questione può sembrare bizantina. Per gli addetti, invece, è materia di diritto, di memoria storica e, inutile negarlo, di sopravvivenza politica.

Nel 2004, le aule di giustizia riconobbero a Rotondi il monopolio sulla denominazione “Democrazia Cristiana”. Il simbolo dello scudo crociato, invece, seguì altre vie e altri eredi. Da lì, una proliferazione quasi darwiniana di sigle e sottosigle: Dc per le Autonomie, Nuova Dc, Dc con nome e cognome incorporato, e così via.

Ora, trent’anni dopo l’estinzione della Balena Bianca, la lotta per il marchio continua, come se il partito fosse ancora in grado di distribuire poltrone e ministeri. E forse, in piccolo, è proprio così: il nome “Democrazia Cristiana” evoca un patrimonio di voti potenziali, nostalgie, legittimazioni. Un po’ come possedere la ricetta segreta di una bibita o di uno snack andati per la maggiore nel passato. Magari non li si vende più in ogni bar, ma il brand resta.

Il vero paradosso è che la Dc nacque come partito dei cattolici e della moderazione, capace di inglobare correnti contrapposte senza implodere. Oggi, le sue reincarnazioni riescono a litigare anche solo sulla validità di una firma. Rotondi sostiene che «le Dc si moltiplicano da quando abbiamo deciso di sostenere Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia», come se il nuovo centrodestra fosse il terreno di caccia preferito per gli ex scudocrociati.

In un’Italia che ha cambiato tutto (legge elettorale, leader, simboli e linguaggio della comunicazione) la disputa sul marchio “Democrazia Cristiana” è una delle poche certezze rimaste. Un fiume carsico della politica italiana, capace di riemergere ogni volta che due o più ex compagni di partito si incrociano in una sala stampa.

Forse, in fondo, non è questione di seggi o simboli. È la malinconica consapevolezza che, se il nome sopravvive, forse sopravvive anche un po’ di quell’epoca in cui bastava dire «sono della Dc» per essere immediatamente collocati, riconosciuti, accreditati. E così, mentre il Paese discute di dazi, intelligenza artificiale, transizione ecologica e guerre lontane, si combatte ancora la battaglia per le due lettere più politicamente longeve della Repubblica.

Con buona pace di De Gasperi, Fanfani, Moro e Andreotti, che forse sorridono: se c’è una cosa che la Democrazia Cristiana ha sempre saputo fare, è durare. Anche solo come sigla.