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IMAGOECONOMICA
Nella narrazione dominante della politica italiana ricorre spesso un ritornello: quello per cui l’esistenza di figure potentissime a livello territoriale, i cosiddetti “Cacicchi”, sarebbe un male da estirpare, un ostacolo alla modernizzazione dei partiti. Eppure, se si va oltre il pregiudizio, ci si accorge che quella dei ras locali è forse una delle eredità dell’epoca in cui i partiti erano macchine strutturate, radicate, capaci di incidere nella vita quotidiana delle persone.
Certo, le esagerazioni, i soprusi, le pretese di impunità devono essere respinte senza esitazioni, ma cancellare in blocco la figura del “Cacicco” significa amputare un pezzo fondamentale della nostra storia politica. Il paradosso è evidente: da un lato si piange sullo smantellamento progressivo dei partiti e dei corpi intermedi, rimpiangendo anche la Prima Repubblica; dall’altro si additano come anomalie i vari De Luca, Occhiuto, Giani o Zaia, accusandoli di tenere in ostaggio le rispettive segreterie nazionali. In realtà, la contraddizione è tutta qui: se la politica italiana ha perso la sua struttura capillare, se non esiste più la rete diffusa di sezioni, circoli e federazioni, è inevitabile che il consenso si concentri attorno a figure che sul territorio hanno saputo costruirsi una base diretta.
Una differenza c’è rispetto al passato, ed è bene sottolinearla. I Cacicchi della Prima Repubblica erano quasi sempre i luogotenenti locali di un leader nazionale al quale garantivano pacchetti di voti e fedeltà politica. Oggi, invece, il potere dei ras sembra svincolato dai dirigenti romani, che spesso ne subiscono i diktat. Alla radice di questo mutamento c’è, tra le altre cose, l’abolizione del voto di preferenza nelle leggi elettorali succedutesi dal 1993 in poi, che ha sottratto agli elettori la possibilità di premiare il lavoro sul territorio.
A questo si è aggiunto l’emergere di nuove strade per conquistare consenso: prima la televisione, con un modello comunicativo sempre più “all’americana”, poi i social network, che hanno spostato l’attenzione ancora di più sul personalismo e sulla spettacolarizzazione. Non a caso già si parla di una nuova generazione di “post-cacicchi”, cresciuti più su TikTok che nelle sezioni di partito, pronti magari a seguire l’influencer Rita De Crescenzo, che non ha fatto mistero di voler provare la strada della politica.
Ma prima dell’era dei like e dei follower, il Cacicco aveva una dimensione concreta: la visita porta a porta, la stretta di mano al mercato, la presenza costante nelle pieghe della vita comunitaria. Non era un caso che personaggi come Remo Gaspari in Abruzzo fossero capaci di cementare consenso e identità, anche attraverso – va detto - pratiche disinvolte di clientelismo. Gaspari, che arrivava in elicottero pur di non mancare a una partita di calcio, era percepito come uno che «c’era sempre», che non dimenticava il proprio elettorato.
Allo stesso modo Riccardo Misasi in Calabria, Carlo Bernini in Veneto e molti altri ras della Prima Repubblica interpretavano il ruolo del mediatore politico con un paternalismo a volte discutibile, ma con un’efficacia che oggi nessun algoritmo può riprodurre. E va detto anche che quella classe dirigente non faceva carriera grazie alla demagogia o a improvvisate scalate via social. I cacicchi di una volta erano il prodotto di un rigido cursus honorum: scuole quadri, sezioni locali, amministrazioni municipali, consigli provinciali. Un apprendistato che insegnava la complessità del consenso e la fatica della mediazione. L’elettore non era un follower da accendere con uno slogan, ma un cittadino da incontrare e da ascoltare.
Il problema, dunque, non sono i De Luca, gli Emiliano, i Zaia o i Decaro che tengono in scacco i rispettivi leader nazionali. Il vero nodo è che quel consenso che essi incarnano non appare più trasferibile al partito: se uscissero, probabilmente una parte significativa degli elettori li seguirebbe. Una cosa impensabile quando i partiti erano portatori di visioni forti, anche radicalmente opposte tra loro. In questo senso, la vicenda di Elly Schlein e Vincenzo De Luca è paradigmatica: da un lato un governatore che ha fatto tutta la trafila del partito, dall’altro una segretaria eletta dalle primarie dopo essersi iscritta al Pd da poche settimane.
Il punto allora non è chiedersi se i Cacicchi vadano eliminati, ma interrogarsi sui meccanismi di selezione della leadership e sulla fragilità dei partiti di oggi. Finché le segreterie nazionali non torneranno a radicarsi davvero nel tessuto sociale, i leader dovranno fare i conti con i ras locali. Non sul terreno dei voti, che restano forza di questi ultimi, ma su quello della gestione del potere e delle mediazioni. Ed è per questo che Schlein e Salvini, pur criticandoli, finiscono per accontentarli. Perché sanno bene che, senza di loro, rischiano di restare con in mano solo un partito virtuale, privo di radici.
I Cacicchi non sono un incidente della politica italiana, ma la prova di quanto ancora serva una politica che sappia “esserci” sul territorio. Può non piacere, ma finché la gente continuerà, oltre a divertirsi sui social, a chiedere un rapporto diretto e personale con chi li rappresenta, i cacicchi avranno sempre un futuro.