«Alla fine Bruxelles dirà di sì» : il vicepremier Tajani è ottimista, convinto che la Commissione europea darà il semaforo verde alla Nadef dell'Italia nonostante lo scostamento massiccio dell'anno prossimo, con deficit al 4,3 per cento, e nonostante il rinvio di un anno, dal 2025 al 2026, del rientro nel parametro del deficit al 3 per cento. Probabilmente non è un ottimismo infondato. La Commissione accetterà i conti italiani perché, come segnalava il ministro Giorgetti, è una istituzione politica e in termini di calcolo politico uno scontro frontale tra Roma e Bruxellles oggi non converrebbe a nessuna delle due parti e lo farà perché l'Italia è in buona compagnia, con il deficit della Germania al 4,7 per cento e quello della Francia al 4,3. Senza dubbio ci sarà chi, i Paesi frugali, insisterà per far partire subito la procedura d'infrazione ma è molto difficile che i superfalchi la spuntino. Sarebbe difficile, nella situazione data, persino se la Germania, per considerazioni puramente elettorali e contro i suoi stessi interessi, si schierasse con i rigoristi inflessibili.

Le vere nuvole però non sarebbero dissipate nemmeno un po’, neppure se Bruxelles approvasse Nadef e manovra senza un fiato. Il braccio di ferro sulla riforma del patto di stabilità è in corso, non è ancora chiaro se, almeno per una fase ponte di qualche mese, torneranno subito in vigore le vecchie regole o se verrà trovato un accordo su quelle nuove in tempo per farle parrtire subito. Ma due elementi sono già chiari: il primo è che i parametri resteranno quelli di sempre, cioè rapporto deficit/ Pil al 3 per cento e debito/ Pil al 60, il secondo è che nessuno in Europa vuole tornare al rapporto con l'Italia che c'era prima del Covid: una trattativa continua, anno per anno, sui margini di flessibilità che l'Italia chiedeva la Commissione contrattava. Neppure le colombe, in Europa, accetterebbero oggi di tornare a quelle abitudini. L'obbligo a una riduzione annuale del debito è già certo: bisognerà vedere in quale misura e con che tempi, se con la marcia forzata che vorrebbe la Germania o solo molto velocemente. Per l'Italia non è affatto la stessa cosa ma nessuna delle due opzioni lascia margini d'azione a questo come

a qualsiasi governo.

Sul fronte dei mercati le prospettive non sono migliori. La fiammata dello spread è durata poco, è rimasto a quota 200 solo alcune ore, due giorni fa, poi è sceso a un livello intorno ai 190 punti. Dopo la grande paura di superare la soglia dei 200 punti, è un sospiro di sollievo. Però piccolo piccolo. È chiaro a tutti che sullo spread e ancora di più sui rendimenti dei titoli di Stato di quasi tutti i Paese Ue si è aperta una partita che non si chiuderà facilmente. Riguarda tutti ma riguarda l'Italia molto più degli altri al solito per il debito che invece, a questi livelli, è un problema italiano. Il ministro Giorgetti afferma che «il debito si è sostanzialmente stabilizzato» . Il problema è che alle stime della Nadef i mercati in tutta evidenza non credono. Ieri hanno accolto con favore i nuovi dati sull'inflazione europea, che registra un calo dal 5,2 al 4,3 per cento. Ma non si tratta ancora di una svolta tale da autorizzare previsioni su un allentamento della stretta sui tassi l'anno prossimo e i dati italiani sono i peggiori d'Europa, con un solo decimale in meno, dal 5,4 al 5,3. Il presidente uscente di Confindustria Bonomi passa all'attacco e chiede tagli seri alla spesa pubblica. In sintesi: l'Italia resterà sotto sorveglianza armata e pronta a razziare per tutto il 2024.

La conclusione è quasi matematica: il governo Meloni, non solo e probabilmente neppure soprattutto per propria colpa, ha di fronte una lunghissima fase difficile, in cui potrà fare pochissimo e dovrà attestarsi su politiche austere di lungo periodo. Quanto una coalizione arrivata al potere con promesse e parole d'ordine diametralmente opposte e che non potranno essere mantenute né l'anno prossimo né in quelli successivi possa reggere questa situazione senza franare o senza entrare in rotta di collisione con l'Europa è l'incognita.