La possibilità che uno dei partner di governo voti per mandare sotto processo il leader dell’altro e tutto resti com’è, risulta impervio da digerire. Il prezzo da pagare per mantenere il potere La lezione della Diciotti per Lega e M5S

Disinnescare la mina della richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini è complicato. Nelle speranze delle opposizioni - e non solo: a molti dentro la maggioranza non dispiacerebbe vedere il titolare dell’Interno zavorrato nella sua, finora, marcia trionfale - del tutto impossibile. Certo è che la possibilità che uno dei partner di governo voti per mandare sotto processo il leader dell’altro e tutto resti com’è, risulta impervio da digerire. Salvini può aver cambiato idea, come si fa maliziosamente trapelare, accantonando l’idea di farsi processare perché non è sicuro di uscire indenne dalle aule giudiziarie: in fondo rischia fino a 15 anni, non uno scherzo. Ma più di tutto è palese che se su un atto “collegiale” dell’esecutivo una parte della maggioranza abbraccia la tesi accusatoria dei giudici esclusivamente in ossequio ad un principio ideologico, allora la solidarietà ed il vincolo di coalizione salta. E il governo pure.

D’altro canto, le giravolte pentastellate confermano che a forza di seguire la linea dura di Salvini poi si finisce in un cul de sac: peraltro il più ostico per i grillini visto che in ballo c’è la coerenza giustizialista, collante vero del MoVimento.

Al redde rationem - che temporalmente non è vicino: l’aula del Senato si esprimerà solo tra mesi e non è detto sia un bene ci si avvicinerà con una crescente convinzione: che per salvare il governo l’unica strada è rigettare la richiesta del tribunale dei ministri di Catania. Riusciranno i pentastellati a reggere un simile contorcimento? E se non accadesse, Salvini avrà il fegato di far cadere il governo ad un passo dal voto europeo di fine maggio? Al momento sono domande prive di risposta.

Nell’attesa che il polverone polemico si diradi e si dimostri quanto poco lungimiranti risultino le convinzioni di chi sosteneva che in fondo i giudici avevano fatto un favore a Salvini spianandogli la strada di una campagna elettorale in discesa, è possibile valutare la vicenda Diciotti anche sotto un’altra visuale politica, meno scontata e tuttavia più significativa. Partiamo da un dato, inoppugnabile: tutto ciò che sta accadendo è nient’altro che la conferma della fortissima determinazione di entrambi i vicepremier e capi delle rispettive formazioni politiche di proseguire nell’esperimento di governo assieme. L’idea di una rottura che affondi il vascello gialloverde è rifiutata senza se e senza ma. Quindi chi coltiva sogni di rivincita a breve puntando sulle divaricazioni tra Lega e M5S, sbaglia i calcoli: Carroccio e grillini ce la metteranno tutta per arrivare con l’attuale assetto fino alla fine naturale della legislatura.

Solo che non è una strada indolore. Per tagliare quel traguardo, all’apparenza velleitario ancor prima che ambizioso, bisogna pagare dei prezzi. Anche salati. Lo ha capito Salvini, che deve ingoiare il reddito di cittadinanza ( «Quello che piace alla gente che non ci piace», come spiegava Giorgetti) e ora attrezzarsi nella riedizione dello scontro tra politica e “toghe rosse” che rimanda al distillato di berlusconismo puro. Lo stanno comprendendo ( ingurgitando corpose porzionidi Maalox...) anche Di Maio e Di Battista: se bisogna convivere con il compromesso, non esistono scorciatoie. Quando arriva il momento, è giocoforza piegarsi alle ragioni della realpolitik per il mantenimento del potere, padrone assai esoso. Novità e cambiamento scolorano e restano sul selciato della buone intenzioni. Di Maio sa che se vota a favore dell’autorizzazione e la maggioranza tracolla, difficilmente il treno del governo passerà una seconda volta per l’M5S. Salvini sa che se il Senato lo boccia e lui fa cadere Conte, sarà costretto a tornare, anche per l’atteggiamento sulla giustizia, sotto l’ala protettiva del Cav. Non sono due opzioni politiche: piuttosto incubi.