Nessuno voleva crederci. E invece lui arrivò puntuale scendendo dall'auto blu di super ministro dell'Economia, accompagnato dall'onnipresente (più tardi anche al Quirinale) Paolo Peluffo, "normalista" come lui. Senza guardare nessuno, si infilò in quel budello sotterraneo di via Andrea Doria, a Roma nel quartiere Trionfale. Lì c'è - ma sarebbe meglio dire resiste ancora - una sede di Giustizia e Libertà, annunciata da una lastra di marmo incastonata all'entrata del palazzo degli anni '20. Ciampi ci si infilò per parlare davanti ad un paio di dozzine di persone di Guido Calogero, filosofo e suo maestro, estensore assieme ad Aldo Capitini del manifesto per il liberalsocialismo.Ci andò, tranquillo e senza fronzoli, perché Ciampi era così: attaccato alle radici. Alle sue: ideali e di azione. E a quelle dell'Italia, avviluppate ai valori del Risorgimento e della libertà ritrovata nella Repubblica dopo il fascismo. E a proposito di radici: nessuna meraviglia per il fatto che fosse nato a Livorno, quarantatré giorni prima che vi fosse fondato il Pci di Gramsci. Chissà se ripensò a quella coincidenza quando a palazzo Chigi prima e a via XX Settembre dopo, le falangi di destra, soprattutto leghiste, lo bombardavano chiamandolo Carlo Azeglio "il rosso".Se lo fece, non se ne meraviglió. Né dell'appaiamento storico, né degli attacchi. La politica lo affascinava, i partiti assai meno, tranne ovviamente quello d'Azione. Oscar Luigi Scalfaro lo chiamò per affidargli l'incarico di formare il governo mentre l'Italia era nel pieno di una inquietante bufera finanziaria e Giuliano Amato aveva lasciato palazzo Chigi dopo essersi introdotto nei conti correnti degli italiani: primo e finora (sperabilmente) unico presidente del Consiglio a farlo. Si trovò a gestire uno dei periodi più tormentati della storia recente del Paese: il crollo della Prima repubblica sotto il machete di Mani Pulite; l'arrivo da trionfatore sulla scena politica di Silvio Berlusconi; l'azione di governo di Romano Prodi con l'ingresso nell'euro. Prima aveva gestito Bankitalia all'indomani dello shock provocato dall'arresto di Paolo Baffi. Evidentemente la competenza e quella sua aria tranquilla rassicuravano.Ma la mitezza non poteva - né lui voleva accadesse - fare ombra alla tempra. È stato l'uomo delle transizioni. Non sempre riuscite: aver fissato così alto il valore della nuova moneta rispetto alla lira, in molti ancora non glielo perdonano. Di fatto quel fixing falcidiò il potere d'acquisto degli italiani, con i prezzi che raddoppiarono in pochi mesi. Ma fu anche il baluardo delle virtù politiche e ideali di un pezzo d'Italia borghese avvinghiata con convinzione alla storia dell'Europa, profonda di pensiero e forte di solidarietà. Razionale ma non algida. Minoritaria ma appassionata alle condizioni delle masse.Arrivò al Quirinale il 18 maggio del 1999 con l'etichetta di primo capo dello Stato non parlamentare. Un omaggio ai tempi che cambiavano, al Palazzo pieno di crepe e non più inespugnabile dalla società civile. Se ne andò sette anni dopo accompagnando di fatto all'uscita anche il quinquennio berlusconiano, prima e unica legislatura da premier completata dal signore di Arcore. L'idea di portarlo sul Colle fu sponsorizzata più di tutti da Walter Veltroni. Mentre i balletti e i trabocchetti tra partiti andavano in scena nel Transatlantico, Veltroni riunì nello studio di casa vicino a piazza Fiume sia Fini che Casini, dopo gli imprescindibili contatti con Gianni Letta. Ne scaturì la decisione di portare Carlo Azeglio sullo scranno più alto della Repubblica. Anche Berlusconi fu d'accordo. In una riunione ristretta nello studio dell'allora capogruppo Beppe Pisanu, si presentò con la solita aria noncurante tagliando corto: «Ciampi è un buon nome, possiamo convergere su di lui. L'unico rammarico è che non lo voti la Lega. Un peccato, visto che stiamo cercando di riannodare i fili con Bossi e siamo a buon punto». I presenti ammutolirono. Non tanto per l'indicazione di Ciampi, che in fondo era nell'aria. Quanto per la rivelazione riguardo le intese con il Carroccio, fino a quel momento giocate dietro quinte. Come andò a finire, lo sanno tutti.Arrivato in cima, Ciampi esibì senza reticenze il suo abito mentale ed i suoi convincimenti. Riabilitó il concetto di Patria, fino ad allora sommamente negletto. Non si mise mai sotto le luci dei riflettori, tanto meno mediatici: la sua recita istituzionale fu discreta, ma ferma. Amava i giornalisti. Quando li riceveva al Quirinale per la cerimonia del Ventaglio la prima e l'ultima cosa che diceva era: «State con la schiena dritta, non dimenticatelo».Invió alle Camere in tutto il settennato un solo messaggio: riguardava la comunicazione, ed era in corso il confronto sulle nuove regole per l'emittenza e la proprietà dei media. «Non c'è democrazia senza pluralismo e imparzialità dell'informazione», era scritto. E ancora: «Quel binomio rappresenta una garanzia e costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta». Per tutta risposta, il governo Berlusconi gli confezionò le legge Gasparri. Ciampi la rispedì al mittente negando la firma.Suggellò invece la "porcata" elettorale di Calderoli, il Porcellum appunto. Unico discrimine: che al Senato il premio di maggioranza fosse su base regionale e non nazionale. «È la Costituzione a imporlo», spiegò agli scettici. Alla Carta, Ciampi restò sempre devoto. Ne conosceva i limiti. Ma aveva vissuto la dittatura: il vento di libertà contenuto in quegli articoli gli appariva un patrimonio da custodire con gelosia e fermezza.