Quando in sala c'è Mario Draghi non importa di cosa si parli: la domandina sul Colle ci scappa sempre. Col tempo le reazioni del solitamente imperturbabile premier sono diventate sempre più indispettite, senza peraltro poter evitare il martellamento. Che Draghi non risponda, batta il sentiero della reticenza, è del tutto naturale e se lo aspetta anche chi pone l'interrogativo. Perché anche dalle risposte negate qualcosa, un umore, una sfumatura, può sempre trapelare.

È andata così nella conferenza stampa di presentazione della Nadef. Palesemente infastidito, Draghi ha ripetuto che così si offende Mattarella. Poi ha concluso con una secco: «Non dovete chiederlo a me ma al Parlamento». Difficile, anzi impossibile, evitare la sensazione, magari infondata, che una frase del genere implichi quanto meno che Draghi non considera l'ipotesi di una sua nomina a presidente della Repubblica fuori discussione.

Ma in fondo il vero tema in discussione non è neppure il Colle. È la permanenza di Draghi alla guida della politica italiana sino a quel 2024 (almeno) che è l'orizzonte della vera battaglia che il governo ha ingaggiato: quella per rendere stabile e costante, strutturale, una crescita che al momento è in buona parte, anche se non del tutto, frutto del rimbalzo e di una congiuntura internazionale molto favorevole ma destinata prima o poi a venire meno.

Non si tratta di un orizzonte politico come tanti. Si tratta, almeno nella visione del tutto esplicita e conclamata di Draghi, di una questione di vita o di morte. La partita dal cui esito dipende la resurrezione dell'Italia dopo tre decenni almeno di declino e stagnazione oppure l'irreversibilità di quel declino. Non a caso Draghi spiega le previsioni molto positive della Nadef, decisamente migliori di quelle di pochi mesi fa, con la campagna vaccinale, che a prima vista sembrerebbe solo sfiorare il capitolo “Ripresa”. Almeno in parte il richiamo alla campagna vaccinale sembra indicare anche il metodo con il quale si dovrà vincere anche la prossima e decisamente più difficile campagna.

È difficile immaginare che una simile missione, che ha tutti i crismi di quelle “emergenziali” sia pure senza essere ufficialmente dichiarata tale, possa essere portata a termine con Mario Draghi in panchina o tornato alla vita privata come Cincinnato. Di strade aperte ce ne sono dunque due e i diversi pareri sul senso reale della recente intervista di Giorgetti, la divisione tra chi ritiene che volesse davvero candidare l'attuale premier al Colle e chi pensa invece che si tratti di un espediente per creare le basi di una sua conferma a palazzo Chigi anche dopo le prossime elezioni, rispecchiano proprio questo bivio.

Solo che la permanenza a palazzo Chigi è un sentiero decisamente più tortuoso ed esposto a un maggior numero di incognite. La condizione essenziale è una spaccatura del centrodestra tutt'altro che fantascientifica. Quando Berlusconi afferma con palese disprezzo «Salvini o Meloni premier? Non scherziamo», dà voce a quel che pensa buona parte della destra, anche se i leghisti accetterebbero ovviamente, senza grande entusiasmo, la presidenza del loro leader ma non quella della sorella d'Italia. Ma la spaccatura della destra non basterebbe. L'esito delle elezioni, come la Germania dimostra, è in questa fase storica in forse sempre e comunque fino all'ultimo. La posizione del M5S è destinata a restare un'incognita permanente, da sciogliersi volta per volta.

La successione al Quirinale è una via più diretta e semplice. Draghi non si candiderebbe ufficialmente: sarebbe il potente partito trasversale che lo sostiene a occuparsi di costruire le condizioni per l'elezione senza bisogno di candidatura ufficiale. Ma in questo caso il prezzo sarebbero probabilmente elezioni politiche immediate esposte a massimo rischio di successiva instabilità e senza poter più giocare la carta Draghi.

La sola via d'uscita sarebbe dunque una presidenza Draghi basata su un patto con i partiti per proseguire la legislatura comunque, con un governo quasi identico a questo guidato da un uomo di fiducia del nuovo capo dello Stato. Quello però sarebbe probabilmente un passo senza ritorno, perché il modello si riproporrebbe anche nella prossima legislatura e il salto nei fatti verso un presidenzialismo magari non dichiarato ma dispiegato sarebbe compiuto e per i partiti l'attuale condizione di subalternità diventerebbe cronica.

È in questo labirinto che si gioca la partita del futuro di Draghi, dalla quale però dipende non solo quel che farà l'attuale presidente del consiglio ma quale sarà l'equilibrio istituzionale futuro del Paese.