Quella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, quando i carri armati russi entrarono a Praga e in generazioni di uomini e ragazzi di sinistra, uccisero per sempre la speranza che il comunismo sovietico potesse diventare “dal volto umano”, Claudio Petruccioli se la ricorda molto bene. All’epoca era segretario della FGCI, la federazione giovanile comunista, che subito contestò in modo netto il gesto del Cremlino. Riandare con i ricordi a quel momento non può essere un’operazione solo rievocativa. Per avere senso, comporta invece due cose: collocare l’invasione russa nel contesto del generale sommovimento che percorreva tutto l’Occidente e cercare di trarre un qualche insegnamento per l’oggi, apparentemente così diverso eppure, per fili sotterranei, ancora legato a quelle vicende. Spiega Petruccioli: “Ci sono due livelli di analisi. Cominciamo dal piano storico complessivo. Il ‘ 68 certo fu l’invasione della Cecoslovacchia fatta dai sovietici con la copertura di alcuni - non tutti - i Paesi del Patto di Varsavia. Ma fu anche un evento a ben vedere in contrasto col ‘ 68; come lo furono l’uccisione di Martin Luther King o quella di Bob Kennedy o la strage di ragazzi nella Piazza delle tre culture a Città del Messico, in occasione delle Olimpiadi: una reazione alla spinta che agitava tutto il mondo. A noi giovani comunisti la vicenda cecoslovacca appassionava perché vi leggevamo il tentativo di riformare il socialismo restando dentro al socialismo. Una cosa che rispondeva ad un desiderio profondo, che però era anche un’illusione. La Primavera di Praga fa parte a pieno titolo del passaggio storico che fu il ‘ 68: un moto senza confini, che riguardava Paesi e Stati diversissimi tra loro e che tuttavia andava nel senso della crescita della libertà per tutti, con quel tanto di utopia che dà spessore alle battaglie ideali.

In Italia ci furono le occupazioni studentesche e Valle Giulia ma anche le lotte operaie che avevano contenuti nuovi. Il ‘ 68 si era aperto con l’offensiva del Têt in Vietnam, ossia squadernando la possibilità che i vietnamiti potessero vincere: un fatto straordinario. In Francia il maggio e in Germania Rudi Dutschke, Rudi il Rosso e la Freie Universität: anche lì un grande moto che faceva proprie pulsioni e spinte presenti già da qualche anno negli Usa. Fermenti che peraltro non si fermarono neppure ai confini dell’Est. Anche i Paesi comunisti, infatti, ne furono coinvolti: ricordo Belgrado, Varsavia e così via. Utopie insieme a follie ideologiche, visto che in quel respiro mondiale veniva inserita anche la Rivoluzione Culturale cinese, che invece aveva tutt’altro indirizzo. Ciò nonostante, tutto veniva vissuto alla stessa maniera. C’era insomma una dimensione planetaria del ‘ 68 che molte rievocazioni hanno trascurato e che invece ne costituiva il tratto caratteristico, che lo ha reso un discrimine del secolo scorso. Per tutti, non solo per la sinistra”.

Un momento per prender fiato. Ma anche per la stoccata importante. “Quello che voglio dire è che i fatti che avvenivano nel mondo, per noi, per i giovani comunisti e di sinistra ma non solo - penso ai sussulti del mondo cattolico, per esempio - erano dalla nostra parte, ci davano ragione. Io come tanti coetanei vivevamo la conferma di una cosa che appariva fuori discussione: gli aneliti di libertà e di avanzamento, la politica che cambiava ma anche il costume, la minigonna e i Beatles, ci confermavano che il mondo, tutto, stava dalla parte nostra. Che dovevano solo allungare la mano per prenderlo. Che gli accadimenti che si snodavano sotto i nostri occhi altro non fossero che tessere di uno stesso mosaico. Che il disegno finale fosse il medesimo sotto tutte le latitudini, che avesse lo stesso senso e significato. Il ‘ 68 rappresenta il culmine di questa sensazione di padronanza del futuro, di sintonia tra l’andamento della storia con la S maiuscola e la nostra singola vita. La convinzione a pelle era che ciò che nella nostra testa desideravamo si sarebbe realizzato, sarebbe inevitabilmente successo. Senza un tale afflato complessivo, senza la consapevolezza della dimensione così totalizzante che vivevano milioni di persone non si capisce cosa poteva significare la Primavera di Praga e come si inseriva nelle nostre menti e nelle nostre coscienze: e non parlo solo di quelle dei giovani comunisti. Il ‘ 68 si concluse con due fatti che spiegano bene come non si trattasse solo di generica protesta generazionale bensì di una lotta durissima. Uno fu l’uccisione di due braccianti ad Avola da parte della polizia: Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona; poi il 31 dicembre ci fu il ferimento alla Bussola di Soriano Ceccanti: aveva 16 anni, restò paralizzato ma ciò non gli impedì di diventare campione di scherma.

Ecco, il piano storico e contestuale del ‘ 68 lo chiudo qui. Con il vento del cambiamento che aleggiava intorno a noi e noi che lo interpretavamo sentendoci parte di un processo che era il nostro processo. Che insomma avevamo ragione, e stavamo dalla parte giusta”.

Adesso arriva la politica. E la parte diventa quella sbagliata: il comunismo che mostra il suo volto più feroce, repressivo, irriformabile appunto. Chissà come deve essere sentirsi dalla parte del torto dopo aver gustato il dolce e inebriante sapore di stare da quella della ragione...

“Ci arriviamo, anche se le cose non sono così semplici. Ero in vacanza con la mia compagna di allora, c’eravamo sistemati a Leuca. All’epoca era un posto quasi caraibico: non c’era nulla tranne il mare. E l’amore. Alcuni amici ci dissero di raggiungerli nel Conero e così facemmo. Quando arrivò la notizia dell’invasione, partii subito per Roma. Lo stesso aveva fatto Occhetto. Ci demmo appuntamento a piazza Farnese e quasi non ci riconoscemmo; io mi ero fatto crescere la barba, lui i baffi: anche questo era un segno dell’epoca... Discutemmo sul comunicato diramato dalla Direzione del Pci che parlava di “grave dissenso”. Si trattava di una presa di posizione quasi ovvia: a maggio c’erano state le elezioni politiche che avevano determinato la sconfitta dell’odiata “bicicletta”, cioè la lista con i due simboli di Psdi e Psi appena unificati. I socialisti uniti potevano diventare a sinistra un competitor per il Pci: ma gli elettori avevano bocciato quella prospettiva. Anche per rispondere agli attacchi, insidiosi, che dominavano la campagna elettorale, il Pci assunse una posizione di forte sostegno a Dubcek con un neanche troppo sottinteso avviso ai sovietici: state attenti a non ripetere l’Ungheria.

È in questa fase che emerge la figura dell’allora segretario, Luigi Longo. Fu molto coraggioso. Durante la campagna elettorale andò a Praga per incontrarsi con Dubcek; stilarono un documento congiunto che esaltava l’esperienza praghese non solo per i destini della Cecoslovacchia ma come orientamento più generale per superare i limiti del comunismo in favore della democrazia. Longo nel comunicato della Direzione oltre al netto dissenso fece inserire anche la riprovazione: lo fece, per intenderci, mentre era in vacanza in URSS...

Il segretario si rendeva conto dell’importanza e delicatezza della vicenda. I miei ricordi e – quel che più conta - i verbali della Direzione raccontano che tornando dall’incontro con Dubcek espresse molte preoccupazioni sulla capacità dei cechi di restare dentro i limiti dettati dai sovietici. Era una posizione saggia ma che scontava il rischio di sfociare nella “sovranità limitata”. Tutto il gruppo dirigente di Botteghe Oscure era dello stesso avviso e la speranza comune era che il Patto di Varsavia alla fine non intervenisse. Insomma - ecco il punto politico più importante - esisteva una generale consapevolezza che l’intervento dei carri armati avrebbe distrutto non solo il sogno cecoslovacco ma anche quello di vedere attuato il socialismo dal volto umano, la riforma del comunismo restando dentro al comunismo.

Longo si espresse in maniera sintetica ma chiarissima, quando dalla tribuna del Comitato Centrale - fu il suo ultimo intervento prima dell’ictus - disse che i confini del socialismo non coincidevano con quelli dei Paesi dove i comunisti erano al potere. Di questa questione, ossia del complessivo significato negativo dell’intervento sovietico, che atteneva alla concezione stessa del socialismo, noi della Federazione giovanile facemmo una bandiera: pubblicammo “14 punti sulla Cecoslovacchia” dove, frammista ad approcci ideologici che oggi suonano perfino ridicoli, questo giudizio politico ( e storico) è molto netto”.

Dunque nessuna ipocrisia: il sogno veniva schiacciato dai cingolati dell’Armata rossa. E con esso naufragavano anche decenni di impostazioni politiche e ideologiche...

“Adesso è obbligatorio dire così. Ma allora la nostra presunzione di giovani che erano sicuri che il mondo andasse nella direzione che loro volevano, ci faceva pensare che i sovietici, con l’invasione, non facevano altro che darsi la zappa sui piedi”.

Gli eventi successivi hanno lo hanno confermato. “Infatti. A cinquant’anni di distanza possiamo fare il confronto sui due fronti caldi dell’epoca: il Vietnam per gli americani e la Cecoslovacchia per l’Urss. Due sfide diverse ma che mettevano entrambe alla prova il ruolo, la visione del mondo, le prospettive future delle due superpotenze. Ebbene è proprio il ‘ 68 a fare da spartiacque. L’anno che sembrava segnare il punto di massima crisi degli Usa, diventa il momento in cui gli Stati Uniti dimostrano la superiorità di un sistema democratico. A Washington si rendono conto che non possono andare avanti in quel modo e dopo l’offensiva del Têt il presidente Lyndon Johnson – che, ricordiamo, fece cose importanti sulla questione razziale e con le riforme sociali della Great Society - annuncia che non si ricandida. E a novembre, per pochissimi voti su Humprhey, vince Nixon il quale con Henry Kissinger cambia, non solo sul piano militare, l’intera strategia americana stabilendo lo sganciamento dal Vietnam, avviando l’avvicinamento alla Cina, decretando la fine della convertibilità oro- dollaro e l’addio a Bretton Woods. Insomma l’America capisce che i parametri fissati vent’anni prima alla fine della guerra dovevano essere quanto meno riveduti. I sovietici, con l’invasione di Praga, dimostrano esattamente il contrario: pensano di poter continuare con lo stesso modello di potenza e di espansione. Incapacità di cambiamento che poi alla fine ne ha decretato l’affondamento. Ebbene in quel ‘ 68 noi inseguivamo il sogno di una evoluzione culturale, vorrei dire razionale, del modello sovietico e confidavamo che Mosca potesse considerare l’esperimento praghese una chance, un atout per fare un passo avanti. La delusione fu enorme, soprattutto per noi della FGCI. A quel tempo la Federazione contava circa 120 mila iscritti: dieci anni prima erano mezzo milione. Il dramma ungherese aveva mietuto vittime. Quelli come me che furono reclutati dopo, lo furono sulla base di un misto di fiducia e di ipocrisia. La fiducia era che il ‘ rinnovamento’ del 1956 ( la via democratica e nazionale al socialismo, il ‘ policentrismo’, cioè il rifiuto del monolitismo sovietico e simili) non poteva essere revocato o contraddetto, la ipocrisia era nel credere che tutto questo potesse conciliarsi con un rapporto di ferro con l’URSS o – peggio – nel raccontarsi che il problema era ormai, di fatto, risolto”.

Bene. Il tempo dei ricordi, delle rievocazioni, delle esperienze ora deve cedere il passo alle riflessioni che possono incidere sulle vicende successive della sinistra, e non solo, con onde lunghe che arrivano fino ad oggi. Petruccioli ne ha una, in particolare. “Longo si era spinto fino all’estremo della differenziazione con Mosca, ma senza mai mettere in discussione i rapporti tra Pci e Pcus. Il suo punto fermo era: se ci chiedono da che parte siamo, rispondiamo che siamo dalla parte del socialismo. Ma proprio perché siamo da questa parte abbiamo il dovere di esprimere le nostre posizioni e le critiche. Tuttavia il limite invalicabile della non messa in discussione dei legami con l’Urss, rimase. E qui arriva il tema sul quale vorrei concentrare la riflessione. Enrico Berlinguer prende in mano il Pci ritrovandosi davanti il dossier delicatissimo di come gestire il dopo invasione. Una vicenda internazionale che ha avuto evidenti riflessi sulle scelte dei comunisti. Nelle mie riflessioni da “archivista” alle quali mi dedico da qualche anno, mi sono concentrato su questo passaggio: durante la segreteria Longo, due erano i temi esaminati con più frequenza in Direzione, due per così dire le priorità. La prima, se partecipare o no alla conferenza internazionale dei partiti comunisti: Amendola voleva che la nostra ritrosia venisse accantonata; Ingrao e Berlinguer no, volevano tenere ferma la posizione critica. Io ( si parva licet) idem. Ovviamente il punto erano i rapporti con l’Urss.

L’altra, il dialogo con il Psi, che stava al governo. In particolare questa seconda acquisiva sempre più centralità. Con Berlinguer l’impostazione cambia radicalmente: dei rapporti con il Psi quasi non si parla più, come se fosse diventata una cosa secondaria. E questo nonostante i socialisti, dopo il fallimento dell’unificazione e l’esaurimento della prospettiva di centrosinistra, si trovassero privi di linea politica. Niente da fare: al centro dell’attenzione di Berlinguer non c’è il Psi bensì la Democrazia Cristiana. Una posizione sempre più rigida che, per intenderci, portò alla rottura con i laici e La Malfa e spianò la strada del Quirinale a Leone invece che a Moro che era il candidato di Berlinguer. Dunque una sconfitta. Riflettendo sulla vicenda cecoslovacca mi viene in mente una spiegazione di quello che altrimenti politicamente è – per me - un mistero. Può essere che Berlinguer, sulla base della aspra esperienza fatta da Longo, si sia detto: se le cose stanno così, l’autonomia del Pci, tanto ricercata ma così difficile da ottenere, può essere meglio sostenuta sulla scorta di un rapporto politico, di governo, con la Dc. Che cioè quel suo “mi sento più sicuro di qua con la NATO che di là con il Patto di Varsavia” sia frutto della convinzione che la migliore garanzia stesse nello stringere i rapporti, anche di governo, con la Dc. E’ solo una intuizione da verificare; fosse così l’ombra di quel 21 agosto di cinquant’anni fa si allungherebbe su tutta la storia politica nazionale, non solo sui rapporti fra comunisti italiani e comunisti sovietici”.